MONNALISA BYTES

Science Storytelling

24′ 12″
Stereotipi

L’esercito delle imperatrici

Testi Emma Gatti
Immagini Nicolò Etiopia
La difesa dello stereotipo della madre è feroce. Perché?

Come in un mazzo di tarocchi fatto da una sola carta ripetuta in eterno, i ruoli permessi alla donna sono solo due, e non c’è da stupirsi che li difenda fino all’ultimo”.

In principio era Inanna, la dea Sumera del tutto. La dea del potere, della fertilità, della passione, dell’istinto e della vendetta. Pacifica ma volitiva, appassionata ma intransigente, sposa, sorella e amica, madre, amante e guerriera. Già al tempo dei Fenici Inanna viene smembrata e perde il suo status di regina del tutto, diventando Astarte, la dea dell’amore, e Anat, la dea della guerra. I Greci smembrano ulteriormente Inanna in Afrodite, la dea dell’amore, Era, la dea del focolare domestico, e Atena, la dea vergine della saggezza. Il lato sanguinario di Inanna viene ceduto ad Ares, e quello di regina del cosmo alla sua controparte maschile, Zeus. Quando arriva l’epoca Cristiana di Inanna è rimasto ben poco. Il mazzo si riduce a due figure, dove una rappresenta il bene e l’altra il male. Come in un mazzo di tarocchi fatto da una sola carta, i ruoli permessi alla donna sono solo due, e non c’è da stupirsi che li difenda fino all’ultimo.

Pesca una carta

Nel Luglio 2018 un fisico e ricercatore dell’Università di Pisa, il Prof. Alessandro Strumia, si conquistò le prime pagine dei giornali scientifici di tutto il mondo dichiarando, durante un meeting di fisica e gender organizzato dal CERN di Ginevra, che “la fisica è stata inventata dagli uomini, non è basata su invito”, riferendosi alle politiche di gender equality messe in atto dagli istituti per chiudere il gender gap. Il punto di Strumia era che in fisica non ci sono donne perché la fisica non ti permette di barare, e le donne per ottenere qualcosa barano, essendo naturalmente meno brave in fisica. Strumia era così sicuro della sua visione che andò fino a Ginevra, a un meeting di fisici (donne!) per presentarla. Inutile dire che la sua tesi non andò giù bene con la platea. 

Un giorno d’estate dell’anno successivo discutevo questo fatto, ancora indignata, con una collega e amica, ricercatrice anche lei. Buttai lì che credere nella superiorità biologica dell’uomo in fisica era come credere che una donna fosse biologicamente superiore all’uomo per fare la madre. Lei mi guardò e mi disse: “Beh, però quello è vero”. Capii che c’era un problema. 

I dati mostrano come l’Italia sia ancora indietro in merito alla equa distribuzione della cura dei figli”.

La donna è davvero biologicamente “più tarata” a occuparsi dei figli di quanto sia l’uomo? È un istinto biologico codificato nei nostri geni, o è un’assunzione culturale? La domanda nasconde degli importanti risvolti economici che vanno oltre il femminismo. Il come una coppia percepisce e distribuisce le proprie responsabilità in merito ai figli, e in particolare come una donna interpreta il suo ruolo di madre, ha dei travolgenti effetti a livello di stipendio e carriera. I dati della OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) riportano che il più grande ostacolo che limita le donne verso l’impiego e la carriera è la mancata ridistribuzione del lavoro non salariato1. Cosa significa? Significa che a parità di ore di lavoro, la donna si occupa comunque anche delle faccende domestiche e della cura dei figli fino anche al 96% in certe zone del mondo. Questo rallenta il reinserimento della donna nel mondo del lavoro, ne abbassa la performance lavorativa, e contribuisce a far preferire lavori part-time dopo la maternità, per gestire meglio la famiglia (per saperne di più, su questo sito si possono vedere i gender index di tutte le nazioni). 

Differenza di tempo speso nella cura dei figli, dei famigliari e degli anziani tra uomini e donne, espresse come percentuali giornaliere. Dati: European Institute for Gender Equality. Fonte:Gender Tabelle riferite a dati del 2019. I dati qui riportati indicano una media di nuclei familiari costituiti da single, famiglie monogenitoriali, coppie con figli e coppie senza figli.


I dati mostrano come l’Italia sia ancora indietro in merito alla equa distribuzione della cura dei figli. Il Gender Equality Index dell’Italia, calcolato dall’Istituto Europeo per la qualità di genere (EIGE), fa notare come la distribuzione tra uomo e donna delle ore non-lavorative per i lavori domestici e la cura dei figli in Italia non sia migliorato dal 2015.

Paragonando coppie a doppio salario, le ore che l’uomo dedica al lavoro domestico rimangono invariate con o senza figli, mentre quelle della donna, quando arrivano i figli, aumentano del 10% (rimanendo sempre più alte di quelle dell’uomo). Fonte:Addabbo

Ore settimanali dedicate dedicate al lavoro non salariato in coppie con doppio salario con figli e senza figli. Dati da Addabbo et al. 2009. Fonte:Addabbo


L’Italia presenta il divario più grosso tra uomo e donna nella distribuzione del tempo dedicato alla famiglia quando messa a paragone con Francia, Germania, Svezia e USA, ed è l’unico paese tra questi cinque nel quale le ore di lavoro salariato delle donne sono aumentate ma il lavoro domestico non è diminuito. Fonte:Anxo È la terza peggiore dell’Unione Europea (dopo Portogallo e Turchia) e la sesta nel mondo. 

Cosa direbbe Inanna, la dea guerriera, madre del tutto, passionale e carismatica, di fronte a questo? Forse direbbe che bisogna parlare di maternità e paternità nel 2021. Sono i padri che non si vogliono occupare dei figli? Ed è davvero la missione di ogni donna, intrinsecamente scritta nel nostro codice genetico, quella di diventare madre? 

È una questione di cervello?

L’argomento è conteso, perché il cervello è difficile da capire. Dobbiamo innanzitutto distinguere fra il cervello inteso come organo biologico e il “cervello” inteso come organo pensante. E dobbiamo anche distinguere tra sesso e genere: il sesso si riferisce alla condizione biologica determinata dai cromosomi sessuali, con XY classificato generalmente come maschio e XX come femmina, oppure XXY, XYY, X, XXX per l’intersesso.

Le differenze sessuali nel cervello sono relative a caratteristiche biologiche (recettori ormonali, neurotrasmettitori, attività immunitaria) che abbiamo in quantità differenti a seconda del nostro sesso. Per fare un esempio, il nostro sesso determina i livelli di ormoni come il testosterone e l’estrogeno, che a loro volta influenzano i nostri organi, cervello incluso. Ci sono differenze nel sesso biologico che influenzano come il cervello processa lo stress, l’attività di componenti chimiche quali la dopamina e la serotonina, e addirittura la risposta del nostro sistema immunitario. Malattie, disturbi e condizioni quali l’Alzheimer, la schizofrenia, la depressione e il morbo di Parkinson sono caratterizzate da differenze dovute ai livelli ormonali, che influenzano l’incidenza, il modo di manifestarsi e l’efficacia dei trattamenti Fonte:Gobinath. Il genere invece si riferisce a come un individuo si identifica all’interno del contesto culturale del suo tempo (e anch’esso può essere fluido e trasversale), e la suddivisione di ciò che è maschile e femminile si basa su presunte qualità di uomini e donne. George Akerlof e Rachel Kranton descrivono, nel loro trattato sull’economia dell’identità Fonte:Akerlof , queste “presunte qualità” come norme sociali, ovvero delle “linee guida del comportamento per una data categoria sociale”. In altri termini, un genere più che averlo, lo si interpreta.

Le ore che l’uomo dedica al lavoro domestico rimangono invariate con o senza figli”.

Il sesso quindi determina le caratteristiche biologiche del cervello, ma non determina il genere, che invece appartiene al reame del contesto sociale. Il problema sorge perché confondiamo (o ci fa comodo confondere) costrutto sociale e condizione biologica: gli uomini sono bravi a leggere le mappe, le donne non sanno parcheggiare. Gli uomini sanno riparare le cose, ma sono in grado di fare una sola cosa alla volta. Le donne sono multitasking e sono più empatiche e intuitive, ma non chiedere loro di pensare razionalmente in un momento di crisi perché sono troppo emotive.

Un esempio che avrebbe quantomeno scaturito perplessità in Inanna (o forse cieca vendetta) riguarda un famoso “incidente” di Google. Nel 2017, l’ormai ex-impiegato James Damore inviò a tutta la compagnia una “lettera aperta” nella quale asseriva che a Google c’erano più uomini che donne perché l’alto livello di empatia delle donne, unito al loro basso interesse per la programmazione, le rendeva meno adatte a lavorare per l’azienda. Secondo lui le differenze biologiche definite dall’apparato riproduttivo determinavano anche le abilità “naturali” di uomo e donna.

Il problema è che Damore, come Strumia, fallì nel vedere come queste “qualità naturali della donna” la vedevano relegata a lavori sistematicamente più umili, meno pagati, e meno interessanti di quelli “donati da madre natura” agli uomini. Gli uomini nel mondo di Damore erano stati posti -dal volere divino della biologia- in cima alla catena alimentare. Questa è la stessa radice di pensiero che portò a dire che i poveri erano poveri per volere di Dio, o che certe etnie erano più adatte ad essere schiave. Ma è troppo facile non considerare le ingiustizie sociali e smantellare l’iniquità giustificandola con la presunta natura biologica dell’oppresso, anziché con le sistematiche barriere sociali messe in atto dall’oppressore.

L’Imperatrice

La maternità e l’identità che porta con sé è una questione complessa. Nessun’altra occupazione o ruolo nella nostra società è circondata da così tanta ambiguità mitologica e al contempo soggetta a un così intenso e continuo scrutinio pubblico. Le “brave” madri posseggono delle caratteristiche che si dice provengano direttamente da una forma istintuale di amore materno per il neonato. Sono eroicamente altruiste, i bambini vengono prima di tutto, amano incondizionatamente e sono sempre presenti.

Eppure le leggi che dovrebbero determinare la superiorità biologica della donna in quanto madre stentano ad emergere anche dopo decenni di studi per stanarle. Il gene “materno” non sembra esistere, e non c’è un solo mito biologico sulla maternità che abbia retto la prova del fuoco della ricerca. 

MITO NR. 1

La donna vuole diventare madre, poiché nel diventare madre vi è la sua realizzazione completa 

Freud, che era un uomo del suo tempo, descrisse la sessualità femminile come “il continente nero della psicoanalisi”. Era convinto che la gravidanza gratificasse tutti i desideri basilari di qualsiasi donna, ma cent’anni di esperienza analitica dopo, i risultati raccontano una storia diversa. Franḉoise Dolto fece notare che tutti i valori positivi per i quali la donna poteva ottenere favori pubblici erano legati alla maternità, e che il “realizzarsi” descritto da Freud non era nient’altro che un ottenere l’approvazione della famiglia, dello Stato e delle istituzioni. Approvazione senza la quale la donna non sarebbe riuscita a sopravvivere nel contesto culturale dell’epoca. Freud si inventava le cose? No, era un uomo di scienza: descriveva i fatti. Però non vide le norme sociali nelle quali era immerso, e le accettò senza metterle in discussione. Interpretò la differenza delle donne, i loro sintomi quali schizofrenia e depressione, la loro insoddisfazione, in termini delle loro storie personali, senza mai farsi domande sulla connessione tra le patologie che stava osservando e il contesto culturale nel quale le sue pazienti erano inserite.

Non è mai stata una questione del volersi realizzare solo attraverso la maternità, bensì il non poter realizzarsi in nessun altro modo”.

Cent’anni dopo, Damore e Strumia avrebbero rifatto lo stesso errore, dimostrando quanto questo modo di pensare sia duro a morire. Senza esempi non si instaura, coltiva e raffina nessuna attività, e se l’unico esempio all’orizzonte che la donna vede è quello di diventare madre, probabilmente non investirà mai in una laurea in fisica. Il paradosso è che l’effetto dell’influenza culturale, e come questa possa cambiare la storia e far nascere nuove abilità, è sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni: in Italia un’intera generazione di bambini si è dedicata alla pallavolo grazie a una serie di fortunati cartoni animati anni ‘80, personaggi come Muhammad Ali hanno reso la box lo sport per eccellenza del riscatto sociale, e da pochi mesi la vendita di scacchiere è aumentata del 215% grazie alla serie tv “La Regina Degli Scacchi”. Non è mai stata una questione del volersi realizzare solo attraverso la maternità, bensì il non poter realizzarsi in nessun altro modo. Se alle donne fosse stata data l’opportunità di studiare e dedicarsi a quello che volevano, anziché imporre loro un ruolo sociale prestabilito, oggi avremmo più scienziate, più matematiche e più fisiche, con buona pace di Strumia. 

MITO NR. 2

La donna deve diventare madre, perché è dotata di un istinto naturale verso la cura dei figli

Diventare madre porta con sé profondi cambiamenti nel cervello delle femmine. Esattamente come in molti altri mammiferi, le neo-madri affrontano una serie di rivoluzioni neurali che predispongono la donna ad adattarsi alla nuova situazione. Durante la gravidanza, il cervello subisce un aumento di ormoni steroidei mai sperimentato prima se non nell’adolescenza. Le evidenze dagli esperimenti su altri animali indicano che il cervello femminile in gravidanza e nel periodo post-natale subisce una serie di modifiche strutturali dovute all’attività ormonale e a fattori ambientali, e tali cambiamenti sussistono fino a due anni dal parto Fonte:Hoekzema.

Quindi è vero che la biologia ha reso le donne naturalmente predisposte per prendersi cura della prole? La differenza sta tra motherhood e mothering, ovvero tra maternità e cure materne (o parenting, per indicare le cure che i genitori rivolgono ai propri figli). Se è vero che la gravidanza aiuta a preparare la donna per la maternità, questo non è un requisito per sapersi prendere cura di un bambino negli anni a venire. Negli essere umani sia i padri che i nonni che gli educatori possono sviluppare un genuino attaccamento ai bambini di cui si prendono cura. Il migliore esempio di questo caso sono i genitori adottivi: ricerche dimostrano come i livelli di ossitocina e l’attività cerebrale di solito sviluppata dalle madri in gravidanza si sviluppa anche nei genitori adottivi, che riescono a sviluppare un legame con il figlio senza bisogno delle sostanze endocrine rilasciate dal cervello durante la gravidanza. Ruth Feldman, una scienziata capostipite nel includere i padri nell’analisi della genitorialità, ha dimostrato che lo stesso livello di ossitocina rilevato nelle madri lo si può rilevare nei padri, a patto che abbiano avuto interazione con il nascituro Fonte:Abraham. Analisi su cervelli di coppie eterosessuali e omosessuali hanno dimostrato inoltre come lo sviluppo dell’amigdala, una parte del cervello ritenuto responsabile della “preoccupazione materna” (è una parte del cervello molto primitiva che ci tiene all’erta) si sviluppi anche nei padri, nei casi in cui l’uomo è il genitore primario Fonte:Feldman.

MITO NR. 3

La donna è naturalmente più capace dell’uomo di prendersi cura dei figli

Il mito della donna “predisposta biologicamente” per fare la madre porta con sé un altro stereotipo, quello che il padre non sappia prendersi cura dei figli. Per capire quanto questo mito sia tenuto in piedi da un pregiudizio basta osservare come sono cambiate le dinamiche nei paesi che hanno messo in atto una politica di supporto della paternità. Nel 1974 la Svezia diventò la prima nazione al mondo a introdurre i “congedi parentali” condivisi, ovvero un periodo pagato dedicato ai neogenitori, indipendentemente se madre o padre. Ciò che emerse fu che sebbene i congedi parentali fossero destinati ad entrambi i genitori, le madri continuavano a prendersi la fetta più grossa.

Dopo questo fiasco la Norvegia introdusse un periodo di congedo obbligatorio riservato ai padri, la cosiddetta daddyquota, questa volta con un cavillo. Se i padri non usavano la quota, la famiglia perdeva il periodo di congedo e i soldi allocati con essa. Questo è quello che ha fatto fare passi da gigante alla carriera femminile nei paesi nordici, ha portato all’equilibrio all’interno della famiglia e a una nuova cultura di coinvolgimento dei padri, che si è rivelata positiva a 360 gradi: le aziende non penalizzano i padri quando è tempo di una promozione, la busta paga delle donne si è alzata, e questo nuovo ruolo paterno sembra contribuire a un abbassamento del tasso di divorzi e l’aumento dell’affido congiunto dei figli. 

Interviste ai padri svedesi hanno rivelato come il poter essere un padre coinvolto attivamente con la cura dei figli abbia liberato l’uomo dal doversi definire solo attraverso il successo lavorativo. Birgitta Ohlsson, l’ex ministro Svedese agli affari europei spiega che: “Finalmente anche gli uomini possono avere tutto: una carriera soddisfacente ed essere un padre presente e responsabile. È una figura maschile più completa quella che si va creando.” Fonte:Bennhold Ovviamente il modo dei padri di interagire con i figli è diverso, ma diverso non significa né inferiore né sbagliato.

IL RUOLO DEL PADRE

Essendo il ruolo del padre come genitore primario nuovo, molte comunità del nord Europa hanno formato dei gruppi nei quali gli uomini possono avere un loro proprio spazio genitoriale e confrontarsi tra di loro.  In Danimarca esistono parchi giochi per padri, dove i padri possono costruire il proprio rapporto con i figli e con gli altri padri, e creare il proprio “modo” di fare il padre. I risultati sono interessanti: una giornalista del Washington Post, che seguì l’esperimento per i suoi studi, notò come meno bambini piangevano in questi parchi gioco. La maggiore rilassatezza che i padri dimostrano di fronte a piccoli incidenti (quali per esempio una caduta dall’altalena) secondo lei veniva trasmessa ai bambini, che a loro volta si agitavano di meno. 

Il problema in Italia è che anche se un uomo volesse fare il padre a tempo pieno, non lo potrebbe fare. La paternità pagata dall’INPS in Italia è di cinque giorni (in confronto alle nove settimane della Finlandia) Fonte:EPRS e il congedo parentale non impone una quota specifica ai padri, come invece accade nei paesi nordici. Il nostro paese non ha una politica di incentivi per includere gli uomini nelle prime fasi genitoriali, e non ha una campagna sociale per rompere l’asimmetria tra madre e padre: se un papà volesse portare suo figlio appena nato al parco o in piscina non potrebbe, in Italia praticamente non esistono fasciatoi nei bagni e negli spogliatoi maschili. 

MITO NR. 4

Non c’è niente di più bello della maternità

Terese Bondas e Katie Eriksson, due ricercatrici all’Helsinki University Central Hospital, nel 2001 pubblicano uno studio sull’esperienza della gravidanza20. Lo studio mette in evidenza come la distanza tra le idilliache aspettative della gravidanza e la realtà dei fatti vada a scavare un solco nella psiche delle madri. Più una madre spera nella perfezione, più il suo corpo e la sua psiche ne risentono. 

MATERNITÀ COME CRISI

Dinora Pines, medico e psichiatra, già nel 1981 sottolineava come l’arrivo di un figlio non fosse il punto di arrivo di una donna, bensì un nuovo inizio nel quale la donna si doveva aggiustare a una serie di circostanze che possono anche installare un meccanismo di crisi. Oggi nuovi dati portano alla luce come la maternità non sia una fase statica nella quale la donna si realizza passivamente, ma una nuova (e non unica) fase nella vita di un individuo che richiede una profonda riorganizzazione del proprio mondo interiore e la ricerca di un nuovo spazio mentale. In questa ottica la maternità assume una nuova connotazione, più complessa: ha lati positivi e lati negativi, con zone di conflitto interiore e momenti di crisi.

Ciò che sta smontando di più questo mito della gioia assoluta della maternità sono le esperienze delle madri stesse: da Claudia de Lillo a Florence Floresti, passando per giornaliste quali Darcy Lockman e Rebecca Asher, attrici quali Amy Schumer, e personaggi pubblici quali Michelle Obama, Oprah Winfrey e Kim Kardashian, il web presenta testimonianze dirette di madri che smentiscono in prima persona il mito della buona madre che ama ogni momento della gravidanza e della maternità. Sebbene questo “coming out” delle madri può sembrare normale oggi, non lo era per nulla 50 anni fa, quando la maternità veniva ancora descritta e interpretata dagli uomini. Anche il senso di colpa che molte madri sentono nell’ammettere che hanno trovato la maternità difficile è ancora radicato: la scrittura, la comicità, il condividere storie senza sentirsi giudicate aiuta a smorzare il senso di colpa, e a non sentirsi sole. 

Pesca un’altra carta 

Perché, anche alla luce di tutto questo, le donne stesse non riescono ad abbandonare questa visione madre-centrica di loro stesse? Perché Inanna non esiste più, e da millenni esistono solo due carte femminili: la Maddalena e la Vergine. L’immagine predominante della nostra cultura per duemila anni è associata con gli aspetti materni della femminilità, e la donna non riesce a pescare un’altra carta perché non ne esistono. Non c’è da stupirsi che difenda così strenuamente l’unico ruolo a lei concessole. Per lo stesso motivo l’uomo fa fatica ad appropriarsi del ruolo paterno: l’immagine maschile dominante non è quella del padre, bensì quella della legge, dell’ordine, del potere. Come in un mazzo di tarocchi, ambo i sessi si ritrovano incastrati in ruoli decisi per loro millenni prima. 

C’è la necessità di ridisegnare i ruoli femminili e maschili. Allo Stato spetta il compito di riformare la struttura assistenziale e di andare ad attaccare le norme sociali, proponendo nuovi modelli di genere. Ciononostante, le madri e i padri devono in qualche modo ristrutturare la percezione che hanno di loro stessi e dei loro ruoli. Possiamo continuare ad organizzare congressi per le Donne nella Scienza, Donne e Tech, Donne e Leadership, possiamo fare caffè letterari femministi, circoli STEM, associazioni, aiuole, panchine, club, reti televisive, magazine nei quali ci lamentiamo del sistema, dei capi, dei mariti, dei padri, e gridare alla rivoluzione.

Più una madre spera nella perfezione, più il suo corpo e la sua psiche ne risentono“.

Ma se una volta fuori dal gineceo abbiamo ancora paura di dire di no, se ancora ci sentiamo in colpa, se ancora lavoriamo dieci ore al giorno, andiamo a prendere i figli a scuola, li portiamo a karatè, facciamo la spesa, gli facciamo fare i compiti, li laviamo, cuciniamo per tutta la famiglia, li mettiamo a letto, gli facciamo lo zaino, allora queste sono solo chiacchere. Il dibattito sulla parità di genere è incagliato sui tabù che le donne stesse non riescono ancora a vedere, e questo lo dimostra il come viene affrontato il problema. Se uno degli ostacoli alla mancata partecipazione femminile nel mondo del lavoro è l’iniqua divisione della cura dei figli, il problema si affronta in due modi: da un lato promuovendo la partecipazione delle donne nel lavoro, e dall’altro promuovendo la partecipazione degli uomini – e degli enti – nella cura dei figli. Ciononostante, nei meeting femministi a cui ho partecipato raramente ho sentito menzionare la seconda parte della soluzione-soprattutto in Italia. La cura dei figli è ancora vista come una responsabilità femminile, e, peggio ancora, il dibattito stesso viene ritenuto un problema solo delle donne. Finché non avremo il coraggio di mettere in discussione quello che noi stesse sentiamo come doveroso e dovuto, non ci sarà molto da fare. Da noi è uscita ancora l’Imperatrice. Forse la carta buona capiterà alla prossima generazione.

EMMA GATTI è una scienziata con una laurea in geologia presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca, un dottorato in geochimica presso l’Università di Cambridge, e sei anni di esperienza da ricercatrice presso il NASA Jet Propulsion Laboratory e il California Institute of Technology di Pasadena. Dopo 12 anni all’estero è tornata a Milano e ha co-fondato Monnalisa Bytes, di cui è anche scrittrice e science editor. Le piacciono i fumetti, i gatti neri e i messaggi vocali.

NICOLO’ ETIOPIA, laureando in graphic design, la notte traccia cerchi magici sui tetti dei palazzi sperando di invocare soluzioni creative efficaci. Ha un debole per le storie tristi, il synth-pop e la malinconia nello sguardo di chi è soprappensiero. I suoi lavori fanno spesso riferimento ad una dimensione sospesa, eterea, dove regnano l’estetica giapponese e ambigui personaggi inquieti. Nei giorni non troppo nichilistici gli piace credere che esistano piccole analogie segrete tra le cose.

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