Sia che la scuola l’abbiate odiata, sia che l’abbiate amata, gli anni della scuola non si scordano. La scuola è dolceamara come il sorriso di Silvio Orlando alla fine di quel film sottovalutato degli anni ‘90, e ti prende troppo della vita per non rimanerti un po’ dentro. E quindi proprio adesso che i ragazzi sui banchi non ci possono più andare, vale la pena riflettere e chiedersi se non sia il caso di apportare qualche cambiamento alla scuola italiana (che a volte sembra ancora calibrata sulla popolazione del ‘15 -’18 piuttosto che su quella del nostro secolo), magari rendendola meno concentrata sul nozionismo e più aperta alla cultura globale e digitale, oltre che più incentrata sulla persona anziché solo sui voti. Visto che ormai la laurea è inflazionata (guardate qui), forse la scuola più che sulla quantità dovrebbe puntare sulla qualità, qualità intesa come qualità degli esseri umani che plasma.
Visto che non siamo esperti di scuola, abbiamo chiesto a qualcuno che di scuola ne capisce di delineare una visione della “scuola di domani”, passando per la scuola di oggi. Ci aspettavamo un futuro digitale, robotico, matematico, fatto di statistica e lingua inglese fin dall’anno zero. E in effetti è così. Ma non ci aspettavamo che l’ingrediente più importante fosse qualcos’altro, un qualcosa di più ineffabile come la creatività. Passiamo quindi la parola alla dott.ssa Camilla Brandao de Souza, sociologa e ricercatrice (Ph.D), che ha intervistato il team di Still I Rise, organizzazione non-governativa per una scuola diversa. Per sentire da loro come potrebbe essere la scuola dei nostri figli.
L’educazione è il momento che decide se amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani.”
– Hannah Arendt
Riflessioni e intervista di Camilla Brandao De Souza
Nicolò Govoni, classe 1993, è uno scrittore, giornalista e attivista per i diritti umani originario di Cremona. A 25 anni ha fondato Still I RISE, un’organizzazione internazionale che apre scuole per bambini profughi nel mondo. Nel 2020 è stato candidato al Nobel per la Pace. Michele Senici, classe 1993, è Direttore Educativo di Still I rise e precedentemente educatore.
Camilla: Nicolò, com’è iniziato tutto?
Nicolò: Ho iniziato con il volontariato, 7 anni fa. Io avevo fatto a pugni con la scuola tradizionale e così ho sentito di voler dare un contributo. Non volevo che nessuno studente si sentisse penalizzato o denigrato, come mi ero sentito io. Lì, in India, tramite quell’esperienza di volontariato iniziale, mi sono sentito utile. Fare qualcosa che portava beneficio ad altri mi faceva sentire vivo. Sentivo però di non avere le competenze per poter fare al meglio ciò che desideravo e quindi mi dissi: “Più riuscirò a formalizzare e ad equipaggiare me stesso, più potrò seguire questo senso di utilità”. E così è nato tutto. Guardando indietro riconosco che è stato un percorso.
Camilla: Come vedi la scuola oggi?
Nicolò: A mio avviso la scuola del presente è già la scuola del passato. Il modello di scuola che abbiamo in Italia non mette al centro i ragazzi, l’innovazione digitale è scarsa e la selezione degli insegnanti avviene prevalentemente sulla base di conoscenze disciplinari. Noi abbiamo quindi voluto creare qualcosa che potesse far fronte all’inadeguatezza del sistema, creando un’alternativa.
Riflessione di Camilla: La creatività non è più legata solo al mondo “artistico”: secondo un rapporto del World Economic Forum è passata, infatti, dal decimo (nel 2015) al terzo posto (nel 2018) nella classifica delle abilità più importanti per poter trovare un lavoro. Fonte:World In particolare, il World Economic Forum ha identificato la risoluzione di problemi complessi, il pensiero critico e la creatività come le tre migliori competenze necessarie per l’immediato futuro. A loro volta la risoluzione di problemi complessi ed il pensiero critico richiedono immaginazione, innovazione e capacità di percepire molteplici prospettive. Secondo Andreas Schleicher Fonte:Schleicher, Direttore del Dipartimento “Education and Skills” dell’OCSE, nel tipo di società che si va delineando non verremo “premiati” per ciò che sappiamo, ma per come sapremo estrapolare ciò che conosciamo, applicandolo creativamente a problemi e situazioni nuove. Secondo il World Economic Forum il 65% dei bambini che sono oggi alla scuola primaria non troverà un lavoro: lo inventerà, creando un lavoro che oggi non esiste. La scuola dovrà favorire, quindi, la capacità di creare e di uscire da sentieri conosciuti e percorsi già tracciati. L’era industriale ha insegnato agli studenti come ricordare ciò che veniva loro trasmesso, l’era dell’intelligenza artificiale dovrà insegnare come poter coniugare al meglio abilità emotive e cognitive all’intelligenza artificiale. In futuro, saremo infatti assistiti dalle intelligenze artificiali ed è pertanto necessario trovare un punto di incontro tra la nozione come strumento di allenamento ed altri elementi fondamentali, come la comprensione e la gestione delle emozioni e l’apertura al nuovo, al cambiamento e all’errore.
Camilla: Quali sono le differenze del vostro modello educativo rispetto a quello tradizionale?
Michele: La nostra scuola è basata su quattro capisaldi. Il primo è la centralità dello studente, che è al centro della relazione educativa. In termini pratici, nelle nostre scuole sono gli studenti a scegliere i corsi e le attività da seguire. Gli studenti determinano inoltre i propri obiettivi di apprendimento e le cosiddette strategie di auto-valutazione. Questo avviene perché vogliamo incrementare la responsabilità dello studente verso se stesso. Promuoviamo la creazione e lo sviluppo di progetti di ricerca personali per insegnare loro ad utilizzare ed implementare uno spirito critico, oltre che la gestione del ciclo di un progetto. Promuoviamo moltissimo anche la creatività e l’originalità di ogni studente, attraverso vari compiti e lavori di gruppo, enfatizzandone i talenti e creando il terreno affinché si possa generare innovazione.
Il secondo è il contesto. L’architettura e l’educazione dovrebbero dialogare: l’ambiente educa tanto quanto l’educatore.
Le nostre scuole nascono con l’idea di una “common hall”, ovvero uno spazio comune che è il fulcro della scuola e che è quello dove gli studenti parlano, si stancano, si incontrano.
Il terzo è l’insegnante, che per noi è un mentore e non solo una persona che trasmette dei contenuti. Nelle nostre scuole non proponiamo ore extra di mentoring nel senso che quello che chiediamo ai nostri insegnanti è di essere mentori sempre. Crediamo infatti che il mentoring, l’orientamento e il supporto educativo possano e anzi debbano accadere in qualsiasi momento. L’ultimo perno del nostro approccio ha a che fare con il pensiero globale. La scuola dovrebbe portare verso il fuori, il più possibile. É necessario che gli studenti sappiano che cosa avviene dall’altra parte del mondo.
Riflessione di Camilla: Uno studio del 2019 Fonte:Brandao condotto su 339 bambini di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni e su 18 insegnanti di scuola primaria, ha analizzato la relazione tra l’intelligenza emotiva degli insegnanti (ovvero la capacità di riconoscere, comprendere, definire, esprimere e gestire le emozioni Fonte:Salovey) e la creatività dei propri studenti. In questo studio si è osservato che, in parte, il livello di creatività dei bambini dipende dall’intelligenza emotiva dei propri insegnanti e dal clima percepito all’interno della propria classe. Questo tipo di dati può essere molto utile, specialmente osservando l’elevato grado di importanza che questo tipo di variabili stanno acquisendo nel XXI secolo.
Conseguentemente è fondamentale che le scuole impieghino le proprie risorse allo scopo di coltivare e supportare l’intelligenza emotiva e la creatività, attivando percorsi e strategie finalizzate ad accrescerle. Fonte:Plucker
Camilla: Nicolò, qual è per te il ruolo degli insegnanti?
Nicolò: Gli insegnanti sono dei mentori. Penso che una delle voragini più grandi relative alle scuole tradizionali sia questa. Gli insegnanti a volte sembra quasi che temano gli studenti in quelle scuole. Fanno le loro lezioni e poi si chiudono in sala insegnanti. Dovrebbero essere una guida per lo studente e non solo qualcuno che insegna come risolvere un’addizione.
Riflessione di Camilla: Il futuro dell’Istruzione vedrà probabilmente un radicale cambiamento del ruolo degli insegnanti, che potranno lavorare con ciascun studente in modo personalizzato. Questo approccio, unito alla tecnologia a disposizione trasformerà, poco alla volta, gli insegnanti in co-creatori e designers di ambienti di apprendimento innovativi. Questi ambienti di apprendimento non insegneranno solo contenuti disciplinari, ma registreranno come apprendiamo e quali tipi di compiti ci interessano o riteniamo difficili o noiosi. I nuovi laboratori virtuali ci daranno l’opportunità di apprendere dagli esperimenti stessi, e diventeranno parte integrante di corsi interattivi.
La competenza globale sarà, inoltre, sempre più all’interno dei curricula scolastici. Per la prima volta, infatti, nel 2018, anche l’OCSE ha incluso all’interno della propria rilevazione PISA anche questo tipo di competenza, monitorando la preparazione degli studenti a vivere in una società multiculturale ed identificando modalità per lavorare per una educazione globale. Secondo tale framework, lo studente dotato di global competence sono in grado di:
Camilla: Michele, per te quali sono le sfide per le scuole del futuro?
Michele: Innanzitutto formare un pensiero globale. Partiamo dal programma di Geografia e di Storia: un programma aggiornato al futuro deve favorire la centralità del mondo piuttosto che di un’area o di un periodo storico legato ad un’area geografica.
Camilla: Lo studio delle lingue straniere è una necessità per il futuro?
Michele: Noi investiamo molto sull’apprendimento delle lingue straniere come l’inglese, l’arabo, lo swahili, il cinese, proprio per dare, oltre ad uno strumento di comunicazione, anche uno strumento di pensiero che possa condurre gli studenti ad aprire porte e dimensioni nuove. Bisogna smontare il paradigma dei cicli, dei curricula, degli anni scolastici. Sono una parte essenziale della formazione scolastica, ma che non possono esserne il fine. Dobbiamo diventare persone più capaci di collaborare, persone più capaci di ascoltare ed empatizzare, e la scuola ha un ruolo importante in tutto questo.
Riflessione di Camilla: L’empatia è l’abilità di entrare in sintonia con l’Altro, con i suoi sentimenti e stati d’animo. Etimologicamente il termine deriva dal greco εμπαθεία (empatéia, parola composta da en-, “dentro”, e phatos,”sofferenza o sentimento). Secondo Jeremy Rifkin Fonte:Rifkin, economista e sociologo statunitense, l’empatia rappresenta lo strumento tramite cui creiamo la vita sociale e facciamo progredire la società. Vista in questa chiave l’empatia costituisce quindi il fondamento delle relazioni umane. In questo senso la scoperta dei cosiddetti neuroni a specchio rappresentano la conferma neurobiologica delle teorie psicologiche secondo cui l’uomo si forma nella relazione e attraverso la relazione ed è biologicamente programmato ad essere empatico. Qualche anno fa un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan guidati dal professor William Chopik ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista “Journal of Psychology Cross-Cultural” Fonte:Chopik che ha esaminato, tramite una serie di domande mirate, i livelli di empatia di più di 100 mila persone, in 63 paesi del mondo. La ricerca fu effettuata sulla base di alcune affermazioni, come “mi preoccupo per le persone meno fortunate di me” oppure “spesso cerco di capire i miei amici immaginando come possano essere percepite le cose dal loro punto di vista” a cui gli intervistati hanno dovuto dare un punteggio in una scala da 1 a 5. Questo studio notò come l’empatia potesse variare a livello culturale e come questa variazione potesse essere correlata a caratteristiche psicologiche e a comportamenti sociali.
I dati di questa ricerca dimostrarono che i paesi che rivelano una maggiore empatia rivelano anche un maggior livello del senso di collettività, di coscienza, di autostima e di benessere psicologico. L’empatia sembra inoltre essere direttamente correlata con la felicità. Un sondaggio delle Nazioni Unite, l’ “Happiness Report”, sin dal 2012 classifica la felicità di 155 paesi al mondo. Fonte:World Questo report ha posto per 7 anni la Danimarca tra i primi tre paesi più felici al mondo, un paese nel quale lo studio dell’empatia è obbligatorio dal 1993. In Danimarca, infatti, un’ora alla settimana è dedicata alla “Klassens tid”, ovvero una lezione in cui gli studenti imparano ad aiutare i propri compagni, a discutere dei propri problemi personali e a competere solo con sé stessi. L’ora di empatia è tanto importante quanto il tempo speso per l’ora di inglese o di matematica. Durante quest’ora gli studenti discutono i propri problemi (sia che si riferiscano alla scuola, sia che si riferiscano ad altri contesti) e lo fanno assieme al proprio insegnante.