MONNALISA BYTES

Science Storytelling

22′ 42″

La plastica al di là del bene e del male

Testi Stefano Lazzari
Immagini Chiara Sangalli
Possiamo davvero fare a meno della plastica?

New York, la città che non dorme mai. La città dalle mille sfaccettature che ha qualcosa da offrire a tutti: musei spettacolari, grattacieli storici che dominano Central Park, locali Jazz, e poi il Madison Square Garden, la Metropolitan Opera. 

Eppure, poco più di un secolo fa, New York attraversava una crisi socio-sanitaria terribile: i cavalli. I circa 150000 esemplari utilizzati per trasportare merci e persone appestavano la città con una quotidiana produzione di milioni di chili di naturali, ma mefitici, prodotti di natura scatologica.

La prima conferenza sull’urbanistica, tenutasi nel 1898 proprio a New York, venne interrotta dopo solo tre giorni (invece dei dieci previsti), perché sembrava impossibile trovare una soluzione. Più una città era grande, più cavalli servivano per gestire gli spostamenti di merci e persone; un circolo vizioso. Fonte:Hosed

La soluzione al problema fu l’automobile, che permetteva spostamenti e trasporti senza produrre quotidianamente tonnellate di letame. Automobile, la salvezza!

Ironico che oggi la soluzione sia diventata un problema (anidride carbonica, riscaldamento globale, particolato, problemi respiratori e via dicendo).

È stata l’unica volta che un’invenzione, apparentemente brillante in un dato momento storico, si è poi trasformata in un problema, o ha avuto risvolti nefasti? Naturalmente no. Considerato quanto sia difficile prevedere le conseguenze delle nostre azioni anche più insignificanti, non è nemmeno una gran sorpresa.

Gli esempi sono numerosi, più o meno famosi: il trinitrotoluene (TNT), inizialmente utilizzato come colorante, venne impiegato pochi anni dopo la sua scoperta come esplosivo in guerra; alcuni insetticidi, pensati per migliorare le rese agricole e poter sfamare più persone, furono poi utilizzati come gas tossici (Sarin e Zyklon B); i cloro-fluoro-carburi (noti come freon), liquidi refrigeranti che dovevano soppiantare la più pericolosa (ed esplosiva) ammoniaca, divennero poi la principale causa del buco dell’ozono (banditi poi dal 1987); il piombo tetra-etile, additivo per ottimizzare la combustione della benzina, risultò essere causa di danni neurologici e cardiovascolari. 

A questa lunga (ma incompleta) lista si aggiunge una delle invenzioni più chiacchierate, usate e demonizzate del nostro secolo, i sacchetti di plastica. L’inventore, Sten Gustaf Thulin, stando al figlio, li avrebbe inventati per ridurre l’uso dei sacchetti di carta e salvare gli alberi. Per durare, la plastica dura. Quando si dice un problema risolto fin troppo bene. 

Il sacchetto di plastica, e la plastica in generale, è un ottimo esempio di come un’invenzione brillante ci sfugga di mano. Noi, come moderni Frankenstein, siamo spesso incapaci di gestire le conseguenze della nostra stessa inventiva.

PLASTICA E AMBIENTE:
IT’S COMPLICATED

In realtà quando parliamo di plastica ci riferiamo a materiali costituiti da polimeri, dove poli vuol dire molte, e meri vuol dire parti. Un polimero è una macromolecola, cioè una molecola grossa, costituita da molecole più piccole, collegate fra loro, che si ripetono (chiamate monomeri).     

POLIMERI COME… LEGO

Per spiegare come è fatto un polimero, prendiamo un set di mattoncini Lego per costruire una torre. I mattoncini sono i monomeri e la torre è il polimero. Possiamo usare mattoncini di colori diversi, costruire torri di altezze variabili, o usare un numero diverso di mattoncini. Se avessimo solo mattoncini rossi e blu, potremmo fare una torre rossa o una torre blu (si chiama omopolimero, perché è fatto di un solo tipo di mattoncini). Potremmo anche fare torri rosse e blu (corrispondenti a copolimeri, cioè polimeri fatti di monomeri diversi), e creare diversi tipi di torri: una torre rossa e blu alternata in modo sequenziale, o una torre disposta in modo casuale, o una torre a blocchi, per esempio il rosso in basso e il blu in alto. In altre parole, un polimero è una sequenza (o catena) di monomeri, cioè di molecole più piccole, che si combinano secondo certe regole. I materiali che si ottengono (composti da molte di queste catene messe insieme) hanno proprietà diverse, a seconda delle caratteristiche delle catene polimeriche utilizzate. Per esempio, catene più lunghe permettono di formare materiali che hanno una maggiore resistenza meccanica. Una tuta spaziale, un paio di scarpe da ginnastica e un materasso sono tutti fatti di polimeri, ma sono molto diversi tra loro, come lo sono le proprietà dei polimeri che li formano.

Da un lato la plastica aiuta l’ambiente. Non è un refuso: le materie plastiche ci aiutano nel limitare il nostro impatto sul pianeta. Il settore dei trasporti utilizza un sacco di materie plastiche. Che si parli di motorini, autovetture, bus, treni, aerei o navi, moltissime delle loro componenti sono fatte di materiali polimerici. Usare i polimeri invece dell’acciaio rende i mezzi di trasporto più leggeri e serve meno carburante o elettricità per muoverli. Quindi si consuma meno energia per gli spostamenti e si emette meno CO2. Anche produrre cibo ha un costo sull’ambiente in termini di utilizzo di risorse (energetiche e non), e anche qui la plastica ci dà una mano, permettendoci di conservare il cibo più a lungo, grazie al “packaging”, limitando lo spreco di cibo. Inoltre, i polimeri ci aiutano nell’isolare le nostre abitazioni dal freddo, risparmiando quindi sul riscaldamento. Anche in questo caso riusciamo a risparmiare energia e produciamo meno CO2.

D’altra parte, lo sviluppo e il successo incondizionato della plastica hanno fatto sorgere tre grossi “imprevisti”, ai quali in qualche modo adesso dobbiamo rimediare:

  1. La dispersione di materie plastiche nell’ambiente, soprattutto marino, come i grandi accumuli negli oceani o sui nostri litorali;
  2. l’accumulo delle materie plastiche nelle discariche, per il mancato riciclo;
  3. l’origine dei monomeri, spesso provenienti da fonti non rinnovabili, come il petrolio.

UNO SPUNTINO INDIGESTO

Cominciamo col primo problema, ovvero la dispersione della plastica nell’ambiente, e in particolare in ambiente marino. Quanta plastica finisce negli oceani? Circa il 3% di tutti i rifiuti plastici, cioè 8 milioni di tonnellate all’anno. Fonte:Ritchie Per avere un’idea grafica dell’impatto, andate su Google e cercate “garbage patches” fra le immagini.

Le così dette “garbage patches” (o zone di immondizia) sono delle vaste aree in cui si è accumulata una gran quantità di rifiuti plastici. Nell’Oceano Pacifico ce n’è una che ha una superficie di circa 3 volte quella della Francia, ossia 1.6 milioni di chilometri quadrati. Non dobbiamo immaginarci delle vere e proprie isole di plastica su cui poter camminare, ma zone molto vaste in cui ci sono moltissimi rifiuti, tutti piuttosto sparpagliati. Fonte:Noaa

Nelle garbage patches si trovano rifiuti di ogni tipo e dimensione: reti da pesca, bottiglie, contenitori e microplastiche, che sono un problema sottile ma insidioso. La microplastica, ovvero plastica di dimensione sub-millimetrica (a essere precisi di dimensione inferiore ai 5 millimetri) si può formare staccandosi da materiali più grandi a causa della radiazione solare e delle onde (microplastiche secondarie), ma ne esistono alcune che vengono prodotte già di dimensioni molto piccole (microplastiche primarie), come quelle inserite nei cosmetici e nei dentifrici. Una fonte importante di microplastiche primarie sono i capi di abbigliamento sintetici. Durante il lavaggio in lavatrice alcune di queste fibre si possono staccare, per abrasione o per le eccessive temperature. Quest’ultima modalità di formazione può essere ridotta lavando a temperature più basse (30°- 40°C), con cicli più rapidi e a carichi pieni. Inoltre, si stanno sviluppando diversi sistemi per catturare, direttamente in lavatrice, le microplastiche che si generano durante il lavaggio. Fonte:Lant Essendo le dimensioni così piccole, le microplastiche possono essere trasportate dal vento, raggiungendo zone remote, come i parchi naturali, le Alpi e perfino l’artico. Uno dei problemi più grossi delle microplastiche è che finiscono nella nostra catena alimentare. Stando a uno studio della australiana Newcastle University, ne consumiamo circa 5 grammi alla settimana, cioè l’equivalente (in peso) di una carta di credito. Quali siano esattamente le conseguenze sulla salute non lo sappiamo ancora con esattezza. Fonte:WWF

Ma come finisce la plastica negli oceani? Le stime sono approssimate, ma circa il 70-80% proviene da fonti terrestri (p.es. cattiva gestione dello smaltimento dei rifiuti, dispersione di rifiuti), mentre il 20-30% da quelle marine (p.es. reti, cime, lenze e altri rifiuti provenienti da navi da pesca, sistemi di acquacoltura o di trasporto marittimo). Fonte:Ritchie

Fra le fonti terrestri, sono i fiumi a trasportare parecchia della plastica negli oceani. Si stima che circa il 25% della plastica totale arrivi negli oceani in questo modo. Fino a pochi anni fa si pensava che la plastica fosse concentrata in un numero relativamente limitato di fiumi: le prime stime individuavano 10-20 corsi d’acqua attraverso cui transitava circa il 66-90% di tutta la plastica “fluviale”. Nuovi studi mostrano un quadro molto più complesso, in cui i corsi d’acqua da tenere sotto controllo sono molto più numerosi: attraverso 1600 fiumi transita l’80% della plastica fluviale. Questo implica la necessità di una strategia globale per affrontare il problema. Fonte:Ritchie Fonte:Our

Ci sono varie contromisure in atto, dallo sviluppo di barriere (di bolle d’aria!) per i canali di Amsterdam, all’ancoraggio di barche “mangia-spazzatura”, per ora testate in Malesia, Indonesia e Repubblica Domenicana. Fonte:Ocean Infine, per affrontare il problema delle “garbage patches”, una start-up ha costruito una grande barriera galleggiante (di plastica!), che dovrebbe permettere di concentrare i rifiuti in un’area relativamente piccola, permettendone così il recupero via nave. Fonte:Ocean

Non è un problema semplice né che si risolverà a breve termine, ma un piano c’è. Tutti possono contribuire alla soluzione, facendo più attenzione a come si buttano via i propri rifiuti e raccogliendo magari un sacchetto di plastica al mare la prossima volta che ci si va.

DIVIDE ET IMPERA

Il secondo problema, quello del mancato riciclo, è ancora più complesso da risolvere, perché ci sono dei limiti di natura fisica e chimica indipendenti dalla nostra volontà. Poniamo per un attimo di riuscire a raccogliere la plastica dai fiumi ed eliminare tutta quella degli oceani, di fermare la generazione di microplastiche e infine di raccogliere tutte le materie plastiche che buttiamo dopo averle utilizzate. Ciononostante, non avremmo risolto il problema: cosa ne facciamo della plastica raccolta? Numeri alla mano, solo il 9% della plastica prodotta a partire dal 1950 è stata riciclata, Fonte:Geyer (il restante 12% è stato incenerito e il 79% si è accumulato in discariche o nell’ambiente). Verrebbe da chiedersi come mai così poca plastica sia stata riciclata. Se faccio una torre di Lego, poi la posso smontare e farne un’altra, usando gli stessi mattoncini.

Purtroppo una soluzione semplice a un problema complesso non c’è. Questo non vuol dire che non ci sia nessuna soluzione, ma che ci sono dei limiti. Per riciclare i polimeri ci sono due strategie principali: una via così detta “fisica” e una “chimica”. 

La via “fisica” prevede che il polimero usato venga raccolto e separato, lavato, seccato, poi sminuzzato, scaldato, per poi assumere una nuova forma. Per esempio, da circa dieci bottiglie di plastica, si può fare una maglietta sintetica. Oppure coi rifiuti raccolti dai litorali si possono fare delle scarpe da ginnastica. Durante questi processi, le catene (le nostre torri) all’interno dei materiali, non vengono rotte, ma solo processate perché si adattino alla nuova forma che abbiamo scelto. Purtroppo, durante questi processi qualcuna delle nostre catene si rompe, facendo perdere proprietà (per esempio la resistenza meccanica) al nostro materiale finale, che può diventare inutilizzabile. Una maglietta sintetica che si rompe mentre la indossiamo non la vorremmo. In altri termini il riciclo fisico non si può fare indefinitamente, prima o poi le nostre torri saranno così “provate”, che il nuovo materiale ottenibile tramite riciclo non sarà utilizzabile. 

Oltre al limite che una catena di polimeri può sopportare durante il processo di riciclaggio, un altro problema è la facilità di separazione dei vari polimeri. Una bottiglia di plastica è relativamente facile da riciclare perché è fatta di un solo strato di plastica. Altri articoli di plastica sono molto più complicati. Un sacchetto di patatine, per esempio, è composto da diversi strati di plastica, colla e alluminio, quest’ultimo essenziale per proteggere il contenuto dalla decomposizione. Questi articoli possono essere riciclati, ma i diversi strati devono essere accuratamente separati, e questo non è facile.

Il riciclo chimico invece prevede che le nostre torri vengano abbattute, in modo ordinato per restituendoci i mattoncini (cioè i monomeri) di partenza. Questi monomeri poi si possono usare per sintetizzare nuovi polimeri. Teoricamente quindi, il riciclo chimico si può fare in maniera indefinita, tuttavia con le tecnologie attualmente disponibili non tutti i polimeri possono essere processati in questo modo, anche in questo caso ci sono delle limitazioni. 

L’origine oscura
(dei monomeri) 

Limitazioni e complessità a parte, il riciclo si fa, e ha un sacco di benefici per l’ambiente: un milione di tonnellate di plastica riciclata equivale ad eliminare un milione di macchine dalle strade. Fonte:EU Per capire come plastica e CO2 siano collegate dobbiamo parlare dell’ultimo problema citato, quello della provenienza dei monomeri, i costituenti base della plastica. L’elemento chiave dei monomeri è il carbonio, e questo proviene, nella stragrande maggioranza dei casi, dal petrolio. Estrarre e processare il petrolio libera gas serra, contribuendo al riscaldamento del pianeta. Questo è uno dei motivi per cui il riciclo è così importante: se potessimo farlo “indefinitamente”, potremmo continuare a usare gli stessi polimeri (attraverso il riciclo fisico) o gli stessi monomeri (attraverso il riciclo chimico), senza aver bisogno di estrarre altro petrolio, processarlo e poi ottenere dei nuovi monomeri. 

Ci sono tante altre soluzioni a questo proposito: esistono fonti rinnovabili (si fanno materie plastiche dal mais), se ne fanno alcune che possono essere digerite da batteri e funghi, che le mangiano per il loro sostentamento e ci liberano del problema dell’accumulo (in questo caso non si ricicla nulla). Addirittura, ci sono batteri che sono in grado di produrre alcuni polimeri: non avremmo nemmeno bisogno del petrolio, dovremmo “solo” prenderci cura di alcuni batteri.

ESSERE O NON ESSERE
(DI PLASTICA)?

Qualcuno ha fatto notare che della plastica si parla tanto come il male assoluto, ma in fondo non è molto il petrolio che viene destinato alla produzione di polimeri. Inoltre, guardando alle emissioni di gas serra, “solo” il 6% viene ricondotto all’industria chimica. Fonte:Sector Quindi solo una frazione di questo 6% viene usato per produrre plastica (la maggior parte della CO2 deriva ancora dal settore dei trasporti e dal riscaldamento). Demonizzare la plastica non ci porterà a niente. Esattamente come New York non può tornare ai cavalli per risanare l’aria, utilizzare materiali “naturali” al posto della plastica non è detto che abbia un minor impatto ambientale. Anzi. Stando all’agenzia ambientale inglese ci vogliono più energia e più risorse per produrre un sacchetto di carta, rispetto a uno di plastica. Bisogna riutilizzare un sacchetto di carta 3 volte perché abbia un impatto sull’ambiente minore rispetto al “classico” sacchetto di plastica (quello che di solito veniva fornito gratuitamente alla cassa). Se poi il sacchetto di plastica viene riutilizzato, la vittoria diventa ancora più schiacciante. I sacchetti di plastica “rinforzati” (quelli più spessi e meno flessibili dei sacchetti di plastica “classici”) vanno riutilizzati fra le 4 e le 11 volte (a seconda del materiale di cui sono fatti) perché abbiano un impatto più basso rispetto al sacchetto di plastica classico. Se volete usare un sacchetto di cotone dovreste utilizzarlo ben 131 volte per cominciare a fare la differenza. Fonte:Gov Produrre il cotone è un processo non banale che ha un costo ambientale non indifferente, che diventa ancora più alto quando il cotone è organico. Stando all’agenzia ambientale danese (che ha usato parametri d’analisi diversi da quelli dell’agenzia inglese), perché un sacchetto di cotone organico abbia la stessa “performance” ambientale di uno di plastica bisognerebbe riutilizzarlo 20000 volte. Fonte:Bisinella

Per fare un altro esempio, una ricerca italiana Fonte:Stefanini mostra che il latte venduto in bottiglie di vetro riutilizzabili (cioè che vengono restituite, lavate e utilizzate nuovamente), danneggia l’ambiente più della plastica, se consideriamo la quantità di energia che serve per la produzione e il trasporto (una bottiglia di vetro pesa di più e servono temperature molto alte per processare il vetro). Anche riutilizzando la stessa bottiglia otto volte, trasportandola avanti e indietro e lavandola, risulta che il latte in bottiglie di plastica di PET (polietilentereftalato, un altro polimero) richiedono una minor quantità di energia. Visto però da un altro punto di vista, nella categoria di impatto sull’ambiente marino il vetro da “restituire” ha un impatto minore rispetto alla plastica, perché è più bassa la probabilità che una bottiglia di vetro pensata per il riutilizzo finisca in ambiente marino, rispetto alla plastica. Questo non rende la plastica buona e il vetro cattivo, come sempre dipende dal contesto e dall’utilizzo che si fa dei materiali. 

L’imballaggio (o packaging) è uno degli ambiti in cui la plastica è fondamentale. A volte viene dato per scontato nei paesi più industrializzati e può apparire superfluo. Per i Paesi in via di sviluppo però le cose sono molto diverse: la Food and Agricolture Organization (FAO) indica che perdite in quasi tutte le fasi della catena alimentare possono essere ridotte utilizzando un imballaggio appropriato, garantendo anche la sicurezza alimentare. Fonte:Manalili

Questi esempi, oltre a quelli accennati in precedenza (mezzi di trasporto più leggeri e materiali termoisolanti) indicano che la plastica è quindi un materiale estremamente utile, al quale non dovremmo rinunciare, almeno non prima di aver fatto le dovute analisi comparative di impatto ambientale. Questo non ci giustifica, come società, a ignorare la situazione di stallo che si è venuta a creare: le materie plastiche sono economiche e fondamentali, ma al contempo se usate e smaltite male inquinano. Sostituire la plastica va fatto con attenzione, perché senza un dettagliato studio ambientale si rischia di portare più danni che benefici. Fonte:FAQ

LA LEZIONE DI FRANKENSTEIN

Gli abitanti della New York dei primi del ‘900 non avrebbero mai pensato alle macchine come ad un problema. La plastica è stata creata con l’ingenuità degli ottimisti e ha trasformato il nostro mondo. L’ingenuità creativa trascende perfino la realtà: nel romanzo di Mary Shelley, il Dr. Frankenstein era partito con le migliori intenzioni quando diede vita alla sua creatura, ma le cose gli sfuggirono di mano. Dobbiamo cercare di non commettere lo stesso errore: non possiamo ignorare la nostra creatura, non dobbiamo voltarle le spalle e sperare che svanisca. 

Dovremo darci da fare per gestire meglio le materie plastiche, ma ci toccherà imparare, se vogliamo che le cose cambino. Un problema così complesso richiede uno sforzo collettivo. Lo sviluppo tecnologico/scientifico, guidato da ricercatori accademici e industriali sarà fondamentale per migliorare i processi di riciclo e per sviluppare nuovi materiali, più sostenibili. Le politiche ambientali intra e soprattutto intergovernative, facendo leva sui risultati scientifici, dovranno contribuire a ridurre (idealmente ad azzerare) la dispersione di materie plastiche, e a promuoverne il riciclo. Fonte:FAQ

Cosa può fare ognuno di noi, nel proprio quotidiano? 

Possiamo restare ottimisti? Forti delle conoscenze scientifiche accumulate dai tempi della prima plastica sintetica (1907), probabilmente sì, possiamo, ma solo a patto di essere pronti a investire, in senso lato. Lo sviluppo tecnologico ha un costo, così come ne ha uno politico ed economico promuovere politiche ambientali significative. Per ognuno di noi c’è poi lo sforzo di diventare consumatori più consapevoli. Senza un approccio olistico e internazionale, un problema di scala mondiale non potrà che restare irrisolto. Probabilmente faremo qualche altro errore, ma il giusto equilibrio da qualche parte c’è. Non vanno messi al bando ingenuità e ottimismo. Il problema non sono le scoperte scientifiche o tecnologiche, ma il modo in cui scegliamo, come società, di utilizzarle.      

I punti di vista espressi in questo articolo sono considerazioni personali dell’autore.

STEFANO LAZZARI è nato e cresciuto a Milano, dove si è laureato in Ingegneria Chimica, al Politecnico. Dopo il dottorato all’ETH di Zurigo ha fatto ricerca a Boston, presso l’MIT, occupandosi di modelli matematici che descrivono la formazione di materiali polimerici, colloidali, e semiconduttori. Vive a Francoforte dove fa ricerca in un’azienda chimica. Nel tempo libero legge, balla il tango, gioca a scacchi e scrive. Qui trovate alcuni racconti che ha scritto durante gli anni a Boston.

CHIARA SANGALLI è un’art director che ama l’armonia cromatica e l’ordine estetico. Il suo obiettivo è quello di creare nel magico universo dei matrimoni come wedding designer. Grande sognatrice, instancabile curiosa, desidera girare il mondo.