MONNALISA BYTES

Science Storytelling

25′ 52″
Arancia Meccanica

Food-on-demand: verso la cucina su misura

Testi Silvia D’Amico
Immagini Chiara Sangalli
Nel futuro il cibo sarà costruito

Sono sempre stata un’amante della buona cucina, come del resto un po’ tutti gli italiani. Non è un caso che siano noti come le uniche persone capaci di parlare di cibo anche mentre siedono a tavola e, a quanto pare, anche mentre discutono di scienza. Ciò per cui ci distinguiamo davvero, però, è il piglio da giuristi della cucina, con cui siamo pronti a scagliarci contro chiunque minacci quelli che consideriamo i cardini del buon cibo, o più semplicemente i fondamenti della cucina italiana.  La passione per la tavola ed i fornelli, però, spesso mal si concilia con le mie lunghe giornate lavorative. Niente, infatti, è più frustrante di rientrare a casa a fine giornata col desiderio di rilassarsi davanti ad una buona cena ed un bicchiere di vino, per poi scoprire di aver terminato le energie e che mettersi ai fornelli è davvero l’ultima cosa che si ha voglia di fare. 

In situazioni come queste non mi rimane che ricorrere ad uno dei tanti servizi di consegna a domicilio, magari fare i conti con una pizza fredda o arrivata in ritardo. Soprattutto, pensare a quanto sarebbe bello se bastasse premere un tasto per avere sulla tavola, e senza alcuno sforzo, il piatto che ho desiderato per tutta la giornata. 

Semplice come un espresso… 

Ripensandoci, non è poi un’eventualità così lontana, soprattutto al giorno d’oggi in cui la tecnologia si impone anche nel mondo della cucina. Nel giro di qualche decennio, siamo passati da strumenti semplici, come frullatori o tostapane, a robot con funzioni sempre più sofisticate, come aggiungere gli ingredienti di una ricetta in sequenza e cuocerli all’occorrenza. Non mi stupirei se tra qualche anno, accanto alla macchina per l’espresso, sul bancone della mia cucina figurasse una stampante 3D, non per produrre accessori o complementi d’arredo su misura, ma per preparare i miei pasti senza sforzo.

L’idea non è farina del mio sacco, ci si lavora già da un po’, tanto che nel 2017 il mercato ha potuto dare il benvenuto a Foodini, la prima stampante commerciale in grado di ricreare il cibo sfruttando apposite “cartucce” contenenti, al posto dell’inchiostro, ingredienti opportunamente lavorati per lo scopo. Il suo funzionamento è, in realtà, assai simile a quello di una grande sac à poche, in cui un pistone, realizzato in materiale plastico atossico, spinge il cibo fuori da una “siringa” in acciaio attraverso un ugello. A fare la differenza è il sistema di movimento estremamente preciso, che consente alla cartuccia di muoversi al di sopra del piatto e disegnare forme eleganti e talvolta complesse.  Per quanto riguarda gli inchiostri, sono composti da alimenti che conosciamo bene, come farina, acqua, uova, patate e via dicendo. Potenzialmente, le ricette “stampate” possono essere realizzate a partire da qualsiasi tipo di ingrediente, a patto che questo venga reso cremoso e caricato nel set di cartucce in acciaio (fino a cinque in contemporanea per le ricette con più preparazioni) fornite al momento dell’acquisto. Non si tratta, quindi, né di cibo sintetico né di qualcosa di fuori dall’ordinario, nonostante il sistema si presti ad assemblare qualsiasi cosa riteniate di voler consumare nel vostro pasto, compresi ingredienti inusuali come le alghe o le bucce di patata. Sebbene per usarla non si possa essere dei totali incapaci in cucina, non è necessario preoccuparsi troppo dell’aspetto: è sufficiente abbinare gli ingredienti al giusto condimento, prima di unire il tutto e riempire le cartucce in dotazione. Un caso a parte è rappresentato dai vegetali con un alto contenuto di acqua. Gli inchiostri a base vegetale, infatti, vengono solitamente prodotti a partire da verdure liofilizzate e reidratate, con acqua o gel a base acquosa, con l’eventuale aggiunta di qualche addensante per raggiungere la consistenza più adatta.  

Il principale vantaggio di Foodini è certamente quello di accorciare i tempi di preparazione e produrre quantità abbondanti di cibo anche in serie. Ciò risulta molto utile nella ristorazione, un ambito in cui è importante che le varie porzioni di una pietanza risultino simili tra loro non solo nel sapore, ma anche visivamente. Tuttavia, non trascurerei neanche la possibilità di trasformare gli spinaci in un simpatico coccodrillo, vincendo così le resistenze anche del bambino più avverso alle verdure.

Avere uno chef elettronico da bancone mi consentirebbe senza dubbio di risparmiare tempo ed energie nella preparazione dei pasti, ma un dispositivo in grado tanto di assemblare gli ingredienti quanto di cuocerli rappresenterebbe decisamente un salto di qualità. Attualmente, infatti, le più comuni creazioni culinarie 3D non possono essere consumate “fresche di stampa”, bensì necessitano di un salto in forno per la cottura. Questo piccolo intoppo potrebbe essere superato da uno dei più recenti prototipi, sviluppato dal team del Creative Machine Lab della Columbia University, il quale integra alla preparazione del cibo un sistema di cottura che sfrutta l’elevata energia e la precisione di un raggio laser del diametro di una punta di spillo. Un po’ come farebbe Superman per cuocere i pancake per la colazione usando lo sguardo. Questo tipo di tecnologia presenta il grande vantaggio di una cottura localizzata e con un controllo estremamente accurato della temperatura, fondamentale per i piatti stampati in 3D, composti da strati sottili idealmente da cuocere man mano che vengono assemblati. Fonte:Hertafeld

Il team del Creative Machine Lab non si è limitato a progettare un sistema congiunto di stampa e cottura, ma ha anche ben pensato di identificare il laser più adatto per ogni tipologia di Così, preparazione. Per farlo ha condotto test rigorosi sull’effetto di laser dalla potenza compresa tra 2 e 5 Watt  che emettono nella lunghezza d’onda corrispondente al blu (450–485 nm) o nel vicino infrarosso (da 0,7 a 10 μm) e medio-infrarosso (da 10 a 50 μm) sulla cottura di impasti, pollo, salmone e vegetali.  La lunghezza d’onda della luce, determinandone l’energia, influisce sulla capacità del laser di far penetrare il calore. una lunghezza d’onda più o meno lunga determinerà se la cottura sarà breve ma intensa, o lenta e più dolce. In base a questa importante caratteristica, i laser ad infrarossi, che hanno una lunghezza d’onda maggiore e una energia più bassa, si sono rivelati i migliori per ricreare l’effetto brunito della rosolatura sulla superficie dei cibi. I laser blu, invece, dotati di una lunghezza d’onda minore e dunque di una energia più alta, hanno una efficienza superiore nel far penetrare il calore e, pertanto, sono più adatti alla cottura profonda. Fonte:Blutinger Va da sé come il piatto perfetto richieda l’azione combinata di laser con caratteristiche differenti, che siano quindi in grado di cuocere adeguatamente l’interno del prodotto, ma anche di conferirgli un aspetto gradevole. Del resto, alle volte, anche la crosticina della lasagna è una questione di fisica quantistica. Chissà cosa penserebbe Homer Simpson nel veder realizzato quello che, forse, è un po’ il suo sogno proibito: una macchina in grado di stampare ciambelle perfette,una dopo l’altra, cuocerle in pochi minuti e garantire al contempo un cuore morbido e una impeccabile glassatura al caramello, il tutto semplicemente cuocendo col laser la copertura di zucchero appena estrusa. 

…su misura come un abito di sartoria.

Per un popolo di cultori della buona tavola, come gli italiani, tutta questa “modernità” suona quasi minacciosa, ma forse anche il nostro concetto di cibo e di tradizione culinaria potrebbe trarne dei vantaggi. Un esempio? Il piatto italiano per eccellenza: la pasta. Se ci pensate, è la cosa più semplice da stampare. Del resto, il metodo tradizionale di produzione della pasta secca potrebbe essere considerato un antenato della stampa 3D. L’impasto di acqua e farina, infatti, viene normalmente estruso attraverso la trafila, una matrice di metallo (il più celebre è il bronzo) che le conferisce l’aspetto e la porosità caratteristici. Non possiamo dirci sorpresi, quindi, dall’arrivo di Blue Rhapsody, un marchio di pasta 3D, nato nel 2018 con il supporto di Barilla, che produce formati innovativi e a tratti bizzarri. Per acquistarli è sufficiente fare un salto sul negozio on line di Blue Rhapsody e, per una spesa compresa tra i 25 e i 60 euro, scegliere tra diverse creazioni, come il trittico Esperienza mare, comprendente formati che richiamano il guscio di molluschi o la coda dell’aragosta, o la geometrica Vortipa.  Tuttavia, il vero valore aggiunto del progetto risiede nella personalizzazione. È possibile, infatti, richiedere la creazione di formati speciali, diversi dagli altri per forma e colore, il tutto all’insegna dell’unicità. Si tratta di un piacere non esattamente economico, ma per chi fa dell’identità una parte rilevante del proprio lavoro potrebbe trattarsi di un ottimo investimento. Quanto passerà prima che ogni chef stellato abbia il proprio formato di pasta cucito su misura? Un marchio di fabbrica inconfondibile, perché anche l’occhio vuole la sua parte e la stampa 3D ci ha già dimostrato in altri campi, dall’ingegneria alla medicina, come sia in grado di stupire in quanto a geometrie.

La grande flessibilità di questo sistema mi fa immaginare un mondo in cui il cibo sia davvero personalizzato e possa rappresentare per tutti un momento di aggregazione, senza rischi derivanti da problematiche di salute o particolari necessità. Già oggi è potenzialmente possibile controllare con precisione la composizione degli inchiostri per la stampa alimentare. Del resto, l’unica limitazione affinché un alimento divenga stampabile è rappresentata dalla consistenza, che deve essere tale da consentirne l’estrusione. Addizionando i vari preparati con aromi, micro e macronutrienti e mescolandoli ad un gel alimentare a base acquosa come, ad esempio, il gel di amido di manioca modificato prodotto dall’ Università di San Paolo del Brasile Fonte:Maniglia, è possibile creare inchiostri su misura. In futuro, ciò potrebbe consentire la produzione di alimenti con contenuto nutrizionale specifico, disegnati in modo mirato per particolari categorie, come gli sportivi, le persone con malattie metaboliche o, ancora, gli anziani.  In linea con questa idea, la Germania e la Svezia si preparano a servire agli anziani delle case di riposo smooth food stampato in 3D, simile nell’aspetto ai piatti che conosciamo, ma con una consistenza differente, più morbida. Fonte:Lee In questo modo, gli alimenti continuano ad essere visivamente invitanti, ma diventano più appetibili per i consumatori con difficoltà nel masticare o ingerire il cibo. 

Un’altra categoria che potrebbe a breve beneficiare di queste possibilità è rappresentata dai pazienti oncologici. Il progetto ONCOFOOD, infatti, si propone di sfruttare la stampa 3D e la personalizzazione degli alimenti per far fronte ai problemi alimentari che talvolta si associano alla malattia oncologica ed alle conseguenze inattese delle terapie. Uno degli effetti collaterali più frequentemente associati alla chemioterapia, infatti, è l’alterazione del gusto e l’infiammazione delle mucose come quelle di bocca ed intestino. Una situazione come questa rende difficile, quando non spiacevole, alimentarsi adeguatamente e ciò si riflette nella malnutrizione che spesso si riscontra nel malato di cancro. Avere la possibilità di creare cibi personalizzati che vadano incontro ad esigenze così particolari potrebbe rappresentare un punto di svolta anche per la gestione di patologie così complesse e, talvolta, invalidanti.  

Un barbecue su Marte

Mentre fantastico su un futuro in cui stampare una lasagna sarà semplice come cambiare canale, mi è impossibile non pensare ad una delle categorie più coinvolte nella sfida tra cibo e tecnologia: gli astronauti. Nei lunghi mesi di permanenza nello spazio conciliare sicurezza, comodità, fabbisogno calorico dell’equipaggio e assenza di un frigorifero come noi lo conosciamo, non è certo una passeggiata. Nei fatti, si traduce in pasti composti per la maggior parte da cibi disidratati o liofilizzati, eccezion fatta per alcune tipologie di frutta e verdura che vengono conservati più semplicemente sottovuoto. Siamo di certo ben lontani dagli anni in cui il cibo per eccellenza degli astronauti era rappresentato dalle cosiddette “barrette spaziali” di cibo disidratato. 

BARRETTE SPAZIALI

Le Space Food Sticks, chiamate comunemente barrette spaziali, sono un prodotto sviluppato dall’azienda americana Pillsbury a partire dal 1969, allo scopo di sostenere, con uno snack energetico, l’equipaggio della missione Apollo 11 che in quell’anno sarebbe sbarcato sulla luna.
Un alimento di questo tipo doveva essere biologicamente sicuro, denso da un punto di vista nutrizionale, facile da conservare e, soprattutto, in grado di non produrre briciole che, in assenza di gravità, avrebbero potuto infilarsi nelle intercapedini della strumentazione o della tuta spaziale, compromettendo la sicurezza della missione e degli astronauti. La soluzione fu trovata in delle barrette di cibo compresso ad alto contenuto energetico che, per andare incontro alle preferenze degli astronauti, furono prodotte in tre gusti: cioccolato, caramello e burro di arachidi. Per consentire la loro consumazione anche senza l’aiuto delle mani, la NASA concepì un sostegno apposito che, fissato sul lato interno della tuta, rendeva possibile dare un morso alla barretta semplicemente chinando il capo, anche  durante una passeggiata spaziale. Fonte:Jones
Dalla necessità di garantire la sicurezza delle Space sticks, un microbiologo della Pillsbury, Howard Bauman, sviluppò il protocollo HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) che rappresenta tutt’ora un golden standard della qualità e della sicurezza nella produzione e distribuzione degli alimenti. Esso prevede l’analisi sistematica dei prodotti alimentari durante ogni fase della filiera, dalla produzione fino alla somministrazione al consumatore, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, quando i controlli venivano effettuati solo a valle della catena di produzione e, spesso, un alimento contaminato veniva consumato prima che fosse possibile individuarne le problematiche. Fonte:Bauman Un’altra prova di come la corsa allo spazio abbia ricadute positive ed impensabili sulla nostra vita di tutti i giorni.

Tuttavia, in vista di missioni esplorative sempre più lunghe e distanti, diventa importante trovare un modo per integrare e variare la dieta, un problema già affrontato al tempo in cui esplorare significava navigare in mare aperto per mesi. E se c’è chi ha ipotizzato piccoli orti marziani basati sulla coltivazione idroponica, sfruttando l’acqua come veicolo per i nutrienti, nel 2019 una biostampante magnetica, prodotta dall’azienda russa 3D Bioprinting Solutions, ha stampato il primo “abbozzo” di bistecca di carne bovina nello spazio, in collaborazione con l’azienda israeliana Aleph Farm. Si è trattato di poco più di un agglomerato di cellule di bovino, ma sufficiente a dare il via all’Aleph Zero Program che punta alla produzione efficiente di carne in condizioni estreme, come appunto nello spazio. 

LA COLTIVAZIONE IDROPONICA

Volgarmente descritta come coltivazione delle piante fuori dal suolo, la coltura idroponica sfrutta la capacità dell’acqua di disciogliere e veicolare le sostanze nutritive per far crescere vegetali di vario tipo in tempi brevi e in modo controllato. Un ulteriore vantaggio è costituito dalla possibilità di evitare il contatto delle piante con i microrganismi patogeni ed eventuali sostanze tossiche contenuti nel terreno, fattore che rende sicuramente più semplice mantenere le coltivazioni in salute.  Le origini di questo tipo di coltivazione, riscoperta nel ‘900, sono antichissime. Le prime testimonianze si ritrovano nei leggendari, e dall’ancora dubbia esistenza, giardini pensili di babilonia e nelle coltivazioni galleggianti azteche (i chinampa), in cui le piante venivano coltivate su una struttura in legno riempita con sedimento fluviale e piante in decomposizione. Nell’agricoltura idroponica moderna, la terra viene sostituita da un substrato inerte ben irrigato con acqua e nutrienti, come ad esempio la fibra di cocco o l’argilla espansa, o in alternativa prevede che le radici delle piante siano immerse direttamente nel flusso d’acqua. Una coltivazione di questo tipo consente, tra le altre cose, un impiego ridotto di acqua e l’indipendenza dalle condizioni limitanti del suolo. Queste caratteristiche la rendono particolarmente promettente per la prospettiva futura di una coltivazione extraterrestre. Proprio per questa ragione la coltivazione idroponica è la strategia usata da HortExtreme, il prototipo di coltivazione spaziale realizzato da Agenzia Spaziale Italiana (ASI), Ente Nazionale per l’Energia Atomica (ENEA) ed Università di Milano che consiste in un sistema di contenimento di 4 m2 con un sistema di ricircolo dell’acqua e una coltivazione totalmente priva di pesticidi e agrofarmaci.

Si chiama bioprinting 3D ed è una tecnologia nuova, che prescinde dalla macellazione e su cui si punta anche sulla terra per un futuro a ridotto impatto ambientale. In sintesi, consente di produrre strutture tridimensionali a partire da materiale biologico, come cellule di varie tipologie, fattori di crescita, ovvero piccole molecole in grado di spingere le cellule a replicarsi, DNA etc. , ed è stata inizialmente sviluppata per scopi ben lontani dalla produzione di cibo, come la costruzione di organi artificiali, il riparo dei tessuti o la creazione di dispositivi riassorbibili dal corpo umano. Per realizzare strutture dall’architettura semplice, normalmente si parte da uno scheletro stampato in 3D in materiale biocompatibile, come ad esempio l’acido polilattico, atossico e biodegradabile, su cui viene successivamente depositato un bioinchiostro; comunemente, si tratta di un idrogel composto da cellule vive sospese in una sostanza gelatinosa in grado da conferirgli una consistenza adatta alla biostampa. Fonte:Mobaraki

Oggi si pensa di riadattare il bioprinting per soppiantare gli allevamenti intensivi, senza tuttavia rinunciare al consumo di prodotti di origine animale, in un’ottica green e cruelty free. Con questo obiettivo, crescono le aziende produttrici di “carne senza carne”, come Impossible Foods e Beyond Meat, impegnate a produrre alimenti di origine vegetale, ma con aspetto, sapore e consistenza del tutto simili alla carne come la conosciamo oggi. Si tratta di prodotti che sfruttano la scienza e la tecnologia per conferire ad una base, costituita da proteine e grassi di origine vegetale derivanti da patate, legumi, cereali e cocco, le caratteristiche organolettiche che rendono la carne così irresistibile per molti consumatori. Questo è ancora più vero se parliamo della Impossible Meat prodotta da Impossible Foods, che garantisce di aver trovato il segreto che si cela dietro una grigliata appetitosa: l’eme, un piccolo complesso chimico in grado di legare l’ossigeno presente nella mioglobina, la molecola usata dai muscoli per farne scorta. A causa della presenza di un atomo di ferro nella sua struttura, l’eme appare come un pigmento di colore rosso. L’elevato contenuto di mioglobina del tessuto muscolare, che è il principale componente della carne che consumiamo, è perciò anche responsabile del suo colore e di come questo cambia nel tempo. Infatti, quando l’eme al suo interno lega l’ossigeno, la mioglobina appare di un colore rosso intenso che vira via via sempre più verso il grigiastro quando il contenuto di ossigeno della carne diminuisce: è questo il motivo per cui la bistecca ha un colore più scuro nel punto in cui è a contatto con il fondo della vaschetta che la contiene o con un’altra fetta di carne. 

COME CONSERVIAMO LA CARNE?

La conservazione della carne ha lo scopo di assicurarne la salubrità e rallentarne il deperimento. La tecnica di conservazione più comune è la refrigerazione, ossia il mantenimento ad una temperatura compresa tra 0 e 10° C. La carne così conservata è contenuta, solitamente, all’interno di una vaschetta in schiuma con un rettangolo di materiale assorbente e coperta da uno strato di pellicola in materiale plastico capace di far passare l’ossigeno. Il contatto dell’ossigeno dell’aria con la mioglobina della carne assicura il mantenimento del colore rosso di quest’ultima. Tuttavia, l’esposizione della carne all’atmosfera esterna la rende enormemente più deperibile. È per questo che, una volta acquistata, non possiamo mantenerla a lungo nel nostro frigorifero prima di consumarla.
L’ossigeno non è l’unica molecola in grado di far apparire la carne di un bel colore rosso acceso. Una delle più comuni tipologie di conservanti  utilizzati nell’industria di lavorazione della carne, agisce proprio in modo analogo. Stiamo parlando dei nitrati, ovvero sali contenenti azoto che, quando aggiunti alla carne, liberano ossido d’azoto, una molecola gassosa capace di legarsi alla mioglobina, prendendo il posto dell’ossigeno e conferendo alla carne un colore molto simile a quello che siamo abituati a vedere nella carne fresca. L’aggiunta di questo conservante è piuttosto comune ed autorizzato nella produzione degli insaccati, come la mortadella ed il prosciutto cotto, di cui aiuta a mantenere il colore rosa intenso oltre a ridurre il rischio di contaminazioni batteriche.  I nitrati, tuttavia, in alcune circostanze possono contribuire alla produzione di nitrosammine, dei composti dell’azoto potenzialmente cancerogeni. Per questa ragione l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA, European Food Safety Authority) ha fissato soglie molto rigide per il loro impiego e consumo. Fonte:European

Secondo quanto sostenuto da Impossible Foods, l’elevato contenuto di eme della carne è responsabile anche della complessità di sapori ed aromi sprigionati durante la cottura. Proprio per questo motivo, ha deciso di arricchire con esso i propri prodotti, inizialmente estraendolo dalle radici delle piante di soia, poi producendolo in appositi fermentatori attraverso l’uso di un lievito modificato geneticamente per poterlo sintetizzare. I risultati sembrano sorprendenti e c’è di più: gli hamburger di questo tipo sono totalmente privi di colesterolo, una componente presente esclusivamente nei prodotti di origine animale.
E perché fermarsi alla carne, quando ci si può spingere fino al pesce? Un’occasione ghiotta per combattere la pesca intensiva che Revofoods ha saputo cogliere al volo, producendo i primi prodotti ittici a base vegetale, secondo un principio molto simile a quello descritto poco sopra. Ad oggi, la stampa 3D è sfruttata da Revofoods per ricreare la texture unica del salmone affumicato e sono così sicuri del proprio prodotto da invitare i consumatori a sottoporlo all’assaggio inconsapevole da parte dei nonni ed a riprenderne le reazioni sorprese alla scoperta di aver appena gustato del salmone che non ha mai avuto né pinne né squame. 

Tuttavia, la ricerca scientifica non ha deciso di ignorare chi non intende eliminare gli alimenti di origine animale dalla dieta e si sta concentrando su una alternativa biotecnologica in cui la carne, chiamata anche “carne coltivata” o “carne pulita”, viene prodotta a partire da cellule di origine animale, ma senza alcuna uccisione. I primi tentativi di produrre carne di questo tipo si sono basati sull’uso di cellule staminali bovine coltivate con opportuni fattori di crescita, ossia piccole molecole in grado di simulare l’ambiente in cui queste cellule sarebbero normalmente cresciute. Si tratta, senza dubbio, di una tecnologia complessa, costosa ed ancora incapace di conferire al prodotto finale le caratteristiche più adatte al consumo. Alcuni di questi limiti sono stati, tuttavia, recentemente superati proprio grazie alla stampa 3D. I ricercatori del Technion – l’Istituto Israeliano di Tecnologia – sono, infatti, riusciti ad ottenere un prodotto simile ad una comune bistecca a partire da un’impalcatura, realizzata in 3D con proteine della soia, su cui sono state fatte crescere diverse tipologie di cellule bovine, le stesse che troveremmo in una fetta di carne: cellule muscolari, entodeliali e cellule satellite, ovvero quelle coinvolte nel processo di rigenerazione dei muscoli. Il risultato finale si è rivelato più vicino alla carne “reale” non solo da un punto di vista strettamente biologico, come osservato dai ricercatori nel loro studio, ma anche nel gusto, secondo il parere degli “assaggiatori” che hanno preso parte al progetto. Fonte:Ben A leggerla, questa storia sembra parte della sceneggiatura di un film di fantascienza, ma i passi avanti fatti fino ad oggi potrebbero rendere la sua applicazione più vicina di quanto immaginiamo. 

Se l’idea di consumare carne prodotta in laboratorio ha iniziato a concretizzarsi nell’ormai lontano 2013, quando a Londra fu cotto ed assaggiato il primo hamburger prodotto da cellule staminali bovine Fonte:Jah, recentemente il colosso del pollo fritto Kentucky Fried Chicken (KFC), ha stretto accordi con 3D Bioprinting Solutions per la biostampa delle prime crocchette di pollo fritto “cruelty free”. L’azienda, la stessa coinvolta nella stampa della prima bistecca spaziale, dovrebbe occuparsi di ricreare dei “filetti” a partire da colture di cellule di pollo. A KFC il compito di trasformarli nei nuggets dalla panatura ormai leggendaria. Fonte:KFC Non nego che, per chi come me è abituato a maneggiare colture cellulari in laboratorio, pensare ad un secchiello di nuggets nato in piastra petri faccia un po’ impressione, ma in fondo potrebbe avere dei lati positivi. Oltre all’ovvio vantaggio di essere cruelty-free, infatti, il bioprinting potrebbe rappresentare un’alternativa low-waste all’allevamento. Secondo il rapporto Fao, ogni anno viene perso o sprecato oltre il 20% della carne prodotta in vari punti della filiera. Fonte:English Avere la possibilità di produrre solo il cibo realmente necessario, come stampare solo il taglio o la tipologia di carne richiesti sul momento, potrebbe contribuire ad evitare l’eccesso di produzione e il mancato consumo, oltre a non richiedere la pratica dell’allevamento intensivo.

Stampare in 3D per ridurre gli sprechi 

Ripensandoci, quella che mi sembrava una fantasia dettata dalla pigrizia potrebbe rivelarsi un’idea di futuro etica, per quanto incredibile possa sembrare. Ad oggi, circa un terzo del cibo prodotto si perde tra il momento della produzione e la vendita al dettaglio, per non parlare di quanto rimane invenduto, perché brutto, prodotto in eccesso, o semplicemente non consumato. Fonte:English Introdurre la stampa 3D in diversi punti della filiera alimentare potrebbe rappresentare un espediente per contribuire alla riduzione di queste forme di spreco. Sebbene il progetto sia ancora ad uno stadio embrionale, l’idea circola nelle menti di numerosi entusiasti della stampa 3D e sono già diverse le aziende che lavorano in tal senso, con approcci anche molto differenti. Con l’avvento della stampa 3D alimentare il concetto di estetica del cibo potrebbe essere del tutto rivalutato. Gli alimenti imperfetti, in particolare i vegetali, potrebbero essere facilmente utilizzati nella realizzazione degli inchiostri, consentendoci così di recuperare una buona parte della produzione. 

?

Una sfida, su cui a partire dal 2018, si concentra la olandese Oceanz, specializzata in stampa 3D,  in collaborazione con la cooperativa agricola DOOR, che fa dell’etica una delle proprie bandiere e punta a sfruttare il 100% dei propri raccolti. Produrre inchiostri per la stampa alimentare 3D a partire da frutta e verdura freschi continua, però, ad essere una sfida, a causa dell’elevato contenuto di acqua che non conferisce alla purea ottenuta la giusta consistenza per la stampa. Come accennato in precedenza, la metodica più utilizzata al momento prevede l’utilizzo di vegetali liofilizzati o disidratati, la cui preparazione spesso comporta la perdita di un quantitativo non trascurabile di micronutrienti importanti. Inoltre, per ottenere la consistenza adatta ad una stampa fluida, è spesso necessario aggiungere agli inchiostri degli additivi, detti idrocolloidi, come carragenina, agar agar ed altri composti che molti di noi già usano in cucina come addensanti. Queste aggiunte non sono ininfluenti, al contrario alterano spesso il gusto dell’ingrediente primario, come avviene per una panna cotta a cui è stata aggiunta troppa gelatina. Il traguardo a cui si punta, quindi, è riuscire a produrre efficacemente inchiostri da verdure e frutta freschi facendo uso di un quantitativo minimo di addensanti.  La cosa sembra possibile, a patto di usare il tipo giusto di vegetale e di trattarlo adeguatamente, come dimostrato dal gruppo di ricerca di Yi Zhang, della Nanyang Technological University di Singapore che ha facilitato questo lavoro, raggruppando i vegetali in tre gruppi in base al contenuto di acqua e di amido. Questa piccola accortezza ha consentito loro di produrre inchiostri a partire da vegetali freschi, riducendo il quantitativo di additivi necessari e costruendo la base per il miglioramento delle tecnologie esistenti fino ad oggi. Fonte:Pant

Un approccio differente è quello utilizzato dalla start-up Upprinting, che punta a ridurre lo spreco nell’ultima parte della filiera alimentare, ovvero il consumo. Nel 2019, infatti, circa il 17% del cibo disponibile per il consumo è finito nelle pattumiere per l’umido, per la maggior parte in quella presente nelle case, lasciando a servizi di ristorazione e punti vendita rispettivamente il 5% e il 2% dello spreco. Fonte:United Elzelinde van Doleweerd, fondatrice di Upprinting, ha osservato come in Olanda il pane, seguito da frutta e vegetali in genere, rappresenti il protagonista di questa forma di spreco. Ha dato così vita ad un progetto che crea cibi innovativi, mescolando gli scarti della ristorazione, come il pane raffermo o la frutta troppo matura, riducendoli in una purea e creando inchiostri alimentari la cui composizione varia a seconda degli ingredienti disponibili. Questi vengono poi impiegati per la stampa 3d in una nuova forma accattivante ed i prodotti finali sono disidratati in forno, per conferirgli una consistenza piacevole, ma anche per preservarli più a lungo dal deterioramento. È così che del cibo che non sarebbe mai stato consumato acquista una nuova forma che contribuisce a renderlo nuovamente attraente e appetitoso per il consumatore. Si tratta di un progetto ambizioso che, in futuro, potrebbe tradursi in una riduzione dello spreco, certo, ma anche in un guadagno per i ristoranti e gli hotel che decideranno di farne uso e per cui Upprinting offre un servizio di consulenza. 

Non sappiamo ancora quando sarà possibile adottare un approccio di questo tipo su larga scala né quanto importante possa essere il suo impatto. Di certo, la riduzione dello spreco alimentare, soprattutto in agricoltura, non può prescindere da altri interventi, che vanno dal ridimensionamento della produzione al miglioramento dell’efficienza della catena di trasporto, distribuzione e conservazione del cibo. Soprattutto, non può fare a meno di interventi di tipo educativo sui consumatori, le cui scelte a volte orientano il mercato in modo più efficace di quanto pensiamo. Ciò nonostante, c’è molto entusiasmo intorno al potenziale di questa nuova metodica, soprattutto sui modi in cui potrebbe aiutarci a ridurre lo spreco nelle case, prima ancora che nelle aziende produttrici. 

Un futuro gourmet,
ma on demand

In futuro, ordinare al ristorante più in della città potrebbe voler dire accedere, direttamente dalla nostra stampante 3D per alimenti, al programma appositamente disegnato dallo chef per la realizzazione della ricetta che tanto ci incuriosisce. Così, senza muovere più di un dito, potremmo ritrovarci sulla tavola un piatto stellato che, senza l’aiuto della tecnologia, non saremmo mai stati in grado di realizzare. E perché limitarci ad assaggiare la cucina del nostro paese se, grazie alle risorse del web, magari potremmo mangiare di nuovo il dolce spettacolare assaggiato in vacanza in un bistrot al centro di Parigi, o la Sacher del celebre hotel viennese? 

Nel giro di poco tempo la tecnologia si è impadronita quasi con prepotenza delle nostre vite, imponendosi anche nell’alimentazione di ciascuno di noi.La vita frenetica a cui ci siamo abituati, con molte ore dedicate al lavoro e solo i ritagli di tempo alle altre attività, ha ridotto il tempo che dedichiamo alla cucina a non più di 40 minuti al giorno.  Con l’avvento di tecnologie sempre più avanzate e di semplice uso, non aver tempo o non saper cucinare non ci obbligherebbe più ad acquistare cibi pronti e industriali in un supermercato iper-fornito. Al contrario, tutto ciò di cui avremmo bisogno è una confezione di cartucce, contenenti ingredienti freschi semilavorati, ed una stampante in grado, come uno chef, di combinare gli ingredienti secondo istruzioni precise e sapientemente programmate, trasformando un disegno scaricato dal web nel piatto desiderato, con l’aspetto e la composizione perfetti per me. 

Quale che sia il potenziale della stampa 3D nel futuro della nostra alimentazione, rimane ancora un grosso limite da superare, ossia il costo non irrisorio della tecnologia e il suo essere ancora poco user friendly. Se domattina, infatti, decidessi di adottare il modello più recente di Foodini con cui arricchire la mia cucina, non spenderei meno di 4000 dollari, un buon motivo per continuare a cucinare. Seppure sedotta dal fascino di un futuro in cui mi attende un nuovo concetto di cucina, frizzante di idee e innovazioni, non so se saprò mai rinunciare ai miei spaghetti e ad un buon bicchiere di Chianti.

SILVIA D’AMICO ha un PhD in Biologia Cellulare e Molecolare presso l’università di Roma Tor Vergata e lavora nella ricerca preclinica sui tumori infantili presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. I suoi problemi con la Scienza iniziano all’età di sei anni. Nel tempo, ha progettato di esercitare almeno dieci professioni differenti, ma tutte a tema scientifico. È co-fondatrice e Project Manager di Nemo – Allenamento e Cancro. Sogna un mondo in cui Scienza e Società si tengano per mano. 

CHIARA SANGALLI è un’art director che ama l’armonia cromatica e l’ordine estetico. Il suo obiettivo è quello di creare nel magico universo dei matrimoni come wedding designer. Grande sognatrice, instancabile curiosa, desidera girare il mondo.

Special Bytes

Arancia Meccanica

Il cibo è di moda?

Altri articoli questo Speciale: