MONNALISA BYTES

Science Storytelling

18′ 23″
Arancia Meccanica

Un microcosmo brulicante di vita

Testi Marianna Rinaldi
La riscoperta di un’antica alleanza tra uomo e batteri ispira un nuovo approccio alla nutrizione umana

De gustibus

La volta che venni a sapere – non ricordo esattamente come, ero troppo piccola – che quello che avevo nel piatto era il pezzo di una mucca rimasi scioccata. Provai angoscia e disgusto e da allora non volli più mangiare nessun tipo di carne o di pesce. Non riuscivo ad accettare l’idea di nutrirmi di un animale morto (e anche fosse stato vivo non sarebbe andata molto meglio).

Poi crescendo cominciai a venire a patti con la mia natura animale. Durante l’adolescenza le pressioni sociali fecero il resto e accettai quindi di mangiare saltuariamente carne o pesce, ma la mia alimentazione comunque è rimasta prevalentemente vegetariana.

Mia figlia invece non ha ereditato questo tratto caratteriale. Da subito ha accettato, di buon grado, l’idea di essere parte del mondo animale e di rispondere alla legge naturale secondo la quale gli animali mangiano altri animali. È una bimba che gusta la carne e il pesce con soddisfazione ma che, in compenso, fugge come un’ossessa di fronte a un piatto di spinaci o di piselli. Trova inconcepibile mangiare qualunque cosa di colore verde.

Gli umani e il cibo:
una relazione complicata

Sono almeno due o tre milioni di anni che siamo diventati onnivori per fare fronte alle esigenze di un cervello in progressiva crescita ed evoluzione, ma si può dire che esistano tanti tipi di onnivorismo quante persone vivono sulla faccia della Terra.

Per degli animali dotati di enorme potere immaginativo come siamo noi, il cibo è sì un bisogno primario − fornisce energia e sostanze chimiche all’organismo per farlo funzionare – ma, allo stesso tempo, è anche veicolo di una infinità di significati intimamente legati al nostro modo personale di concepire il mondo e il senso dell’esistenza. Da questo punto di vista quello che mangiamo non è mai neutro. O è “buono” o è “cattivo” e quanto sia “buono” o “cattivo” dipende dai nostri gusti innati e dal nostro bagaglio culturale, inteso nel più ampio senso possibile.

Nell’universo umano il cibo può addirittura diventare ideologia e terreno di scontro. Pensiamo a tutta la serie di “credi” alimentari che si stanno diffondendo oggi e che spesso sono in contrapposizione tra di loro: dai vegetariani che evitano di mangiare carne e prodotti della pesca ma accettano il consumo di latte e uova; ai vegani che si cibano solo di vegetali perché ripudiano qualunque tipo di sfruttamento degli animali sia per l’alimentazione sia per l’abbigliamento; ai fruttariani che ammettono come unica possibilità quella di alimentarsi solo dei frutti e non accettano l’idea di consumare gli organi vitali delle piante (le foglie e le radici) e a maggior ragione i loro embrioni (i semi); ai paleodietisti che aborrono i cereali, i latticini e in generale tutto ciò che può essere ricavato dall’addomesticamento degli animali e dall’agricoltura; ai crudisti che assumono solo cibi crudi (a loro volta suddivisi in crudisti onnivori, vegetariani, vegani e fruttariani), per arrivare infine all’estremismo assoluto dei respiriani che ambirebbero addirittura a sostentarsi solo con aria e luce solare. Per desiderio di completezza, la famosa testata satirica Lercio.it ha recentemente proposto di aggiungere a questa già ben nutrita lista anche i negani, ovvero coloro che mangiano di tutto ma si rifiutano di ammetterlo.

Ironia a parte, quello che possiamo ormai dare per assodato è che non sappiamo scegliere per istinto la giusta combinazione di nutrienti che il nostro corpo richiede per poter funzionare in modo adeguato. Il nostro gusto innato non sa guidarci in maniera sapiente. Anzi, se proprio possediamo qualcosa di innato e di istintivo è la passione sfrenata che ha il nostro cervello per i cibi ricchi di zuccheri, grassi e sale, passione forgiata da millenni di evoluzione in un mondo in cui la presenza di cibo non è mai stata scontata. E questo istinto – in un ambiente, come quello del mondo industrializzato, in cui c’è una grande disponibilità di cibi ipercalorici a basso costo – purtroppo ci mette sulla cattiva strada.

Se oggi vogliamo nutrirci in modo appropriato, per soddisfare le esigenze del nostro organismo e per migliorare e preservare il più a lungo possibile il nostro stato di salute, dobbiamo quindi mettere un freno al nostro cattivo consigliere interiore, far prevalere la nostra facoltà raziocinante e metterci a studiare.

La ricerca scientifica

Che cosa ci insegna la ricerca scientifica in tema di nutrizione? In estrema sintesi: mangiare troppa carne fa male; mangiare cibi troppo raffinati fa male; mangiare frutta, verdura e alimenti integrali fa bene.

È infatti risaputo − ormai da decenni − che consumare troppi cibi animali (uova, carne e soprattutto salumi e insaccati) aumenta la probabilità di morire per malattia e in particolare aumenta il rischio di avere un infarto cardiaco o un ictus cerebrale, di ammalarsi di diabete oppure di cancro. Al contrario, un’alimentazione di tipo vegetariano è notoriamente associata a un’incidenza diminuita delle stesse malattie e a una minore mortalità. Fonte:Aune Fonte:Larsson A questo punto però occorre soffermarci un attimo a riflettere su un aspetto importante: “vegetariano” non significa sempre, automaticamente, “sano”. Infatti, l’appellativo specifica più cha altro quello che viene escluso dalla dieta, non tanto quello che viene incluso.

Sono molti i vegetariani o i vegani che si alimentano di prodotti lavorati dall’industria, ricchi di grassi saturi e di zuccheri semplici (es. alimenti prodotti con farine raffinate e grassi idrogenati oppure con un eccesso di zuccheri come snack, condimenti, succhi di frutta e altre bevande zuccherate) e che quindi, paradossalmente, seguono una dieta ipercalorica e sbilanciata, di tipo “occidentale”. 

In questi casi il beneficio si perde e il rischio di ammalarsi di una malattia cardiovascolare, di diabete e di cancro aumenta, esattamente come nel caso di chi si ciba eccessivamente di prodotti animali. Fonte:Hemler

La natura vegetale o animale del cibo quindi di per sé non basta a fare la differenza. Quello che in realtà si rivela determinante è la quantità di fibra vegetale e di sostanze ad azione antiossidante che mettiamo nei nostri piatti ogni giorno. 

Ma perché la fibra vegetale che il nostro palato gradisce così poco − tanto che l’industria alimentare si è messa d’impegno con tutta la sua capacità tecnologica per eliminarla dagli alimenti − è così fondamentale per il nostro organismo?

“Piccole feci,
grandi ospedali” 

Uno dei primi ad aver capito l’importanza delle fibre vegetali per la salute umana fu Denis Parsons Burkitt, medico irlandese che visse e lavorò in Africa per molti anni e che entrò nella storia della Medicina per aver descritto per la prima volta, nel 1958, un particolare tipo di tumore del sangue che oggi conosciamo appunto come Linfoma di Burkitt. 

Durante la sua ventennale pratica medica in Uganda aveva osservato che gli abitanti dei villaggi rurali raramente soffrivano di alcune malattie che invece colpivano in maniera tipica gli occidentali come allergie, asma, diabete, pressione alta, problemi cardiaci, calcoli alla cistifellea e cancro all’intestino. Si era convinto che ciò dipendesse dal fatto che gli ugandesi consumavano quotidianamente una quantità di fibre vegetali sette volte superiore rispetto agli occidentali producendo di conseguenza una quantità di feci almeno cinque volte più abbondante in molto meno tempo. 

Per Burkitt, l’opulenta società occidentale si era così allontanata dall’alimentazione e dallo stile di vita tradizionali da essere diventata una comunità di individui “costipati” e destinati perciò a sviluppare tutta una serie di disturbi cronici e debilitanti, che, nella seconda metà del Novecento, cominciavano a comparire in forma epidemica per la prima volta nella storia umana. 

“Grandi feci, piccoli ospedali, piccole feci, grandi ospedali” era il suo teorema e si dice che avesse sviluppato una tale passione e un tale fervore per l’argomento da arrivare a  intrattenere i propri commensali alle cene di gala con le foto di quello che secondo lui doveva essere l’escremento “perfetto”. Fonte:McD

Secondo Burkitt le fibre sono gli “spazzini del colon” ed esercitano la loro azione benefica attraverso un effetto meccanico, aumentando il volume delle feci e velocizzando il transito del cibo digerito all’interno dell’intestino. Per usare le sue stesse parole a proposito dei pericoli di un’alimentazione priva di fibre: “Una qualunque sostanza cancerogena che sia stata ingerita o che si sia formata all’interno dell’intestino di chi si nutre di cibi troppo raffinati non è solo presente in maniera più concentrata all’interno di feci di piccole dimensioni ma, in un colon costipato, rimarrà a contatto con la mucosa per un tempo più lungo”. Fonte:Burkitt

“Conteniamo moltitudini”

Burkitt ebbe una brillante intuizione ma ci vorrà ancora una trentina d’anni per poter arrivare alla comprensione di come agiscono realmente le fibre vegetali all’interno del corpo umano e sarà la biologia del ventunesimo secolo a offrircela attraverso un radicale cambiamento di prospettiva che ci costringe ad abbandonare l’idea di organismo e di individuo per come l’abbiamo sempre concepita.

Sulla pelle e in ogni piega o cavità che comunichi con l’esterno, il nostro corpo ospita un’enorme comunità di microrganismi che viene chiamata microbiota (o microbioma se ci si riferisce in maniera specifica all’insieme delle informazioni genetiche espresse dalla comunità microbica) costituita da batteri, archei, virus e funghi che vivono in simbiosi con noi.

Gli studiosi hanno scoperto che la composizione del microbiota di ognuno di noi è unica e ha un enorme impatto sul nostro stato di salute in quanto può condizionare il nostro peso corporeo o il rischio di ammalarci di diabete, di malattie cardiache o di cancro. Contare quanti microbi albergano nel nostro corpo non è facile ma sicuramente possiamo dire che ci sono più batteri su di noi di quante stelle ci siano nella nostra galassia. Fonte:Yong Molti di più, almeno cento volte tanto. Secondo recenti stime Fonte:Sender, il numero di microrganismi che vivono nel nostro corpo si aggira attorno ai 39 bilioni (3,9 x 1013), che significa che se fossero grandi come granelli di sabbia ci potremmo riempire due piscine olimpioniche.

“Considerando che, nel nostro corpo, le cellule umane sono circa 30 bilioni (3,0 x 1013), possiamo dire di essere umani solo al 43%” dice, in un’intervista alla BBC, Rob Knight, professore all’Università della California San Diego e fondatore dell’Earth Microbiome project. Fonte:BBC

Ma se ci riferiamo agli aspetti genetici i numeri sono ancora più sorprendenti: mentre il “libretto di istruzioni” per costruire e far funzionare un organismo umano è costituito da 23.000 “capitoli” o geni, i geni espressi dai soli microrganismi della bocca e dell’intestino umano sono circa 46 milioni, la metà dei quali “individuali” in quanto presenti in maniera unica nelle singole persone. Fonte:Tierney

Questi dati ci raccontano di quanto possa essere grande l’influenza che questi microrganismi esercitano su di noi e di come sia straordinaria da questo punto di vista la diversità tra le persone. 

L’enormità di informazioni genetiche contenute nel microbiota rappresenta quindi un secondo genoma che si aggiunge a quello umano ampliandone e potenziandone l’attività. Secondo Sarkis Mazmanian, microbiologo del California Institute of Technology (Caltech), “quello che ci rende umani è la somma tra il nostro DNA e quello dei microbi che ci abitano”. Fonte:BBC Ogni singola persona è quindi una comunità di esseri viventi, un ecosistema, e le malattie possono essere concepite come alterazioni ecologiche. “Quando un essere umano si ammala, i suoi problemi sono paragonabili a quelli di un lago invaso dalle alghe o a un prato invaso dalle erbacce: ecosistemi allo sbando” afferma Ed Yong, autore del bellissimo libro Contengo Moltitudini. Fonte:Yong

Una comunità operosa

Gli ecosistemi sono influenzati non solo dagli esseri viventi che li costituiscono ma anche dall’ambiente fisico in cui questi esseri vivono e dalle risorse a cui possono attingere. Così l’ecosistema del nostro intestino non è contraddistinto solo dalle specie che ospita ma anche dai nutrienti che lo attraversano, esattamente come l’ecosistema di un bosco non è caratterizzato solo dalle piante e dagli animali che lo abitano ma anche da quanta pioggia lo irriga, da quanta luce solare filtra tra gli alberi e da quante e quali sostanze nutritive sono presenti nel terreno.

Il termine “fibra vegetale” è un termine generico che viene utilizzato per indicare un’ampia varietà di carboidrati che l’organismo umano non riesce a digerire e quindi a sfruttare dal punto di vista energetico. Esistono però moltissime specie batteriche che invece sanno farlo. Il fatto di fornire all’ambiente intestinale un grande apporto di questi carboidrati seleziona “darwinianamente” le popolazioni di microbi che sono in grado di utilizzarli come nutrimento e che quindi prosperano a discapito di altre.

I batteri che si nutrono di fibra producono, durante il loro metabolismo, diverse sostanze che possono essere assorbite dall’organismo umano o che possono fungere da nutrimento per altre popolazioni microbiche. Tra tutte le sostanze prodotte, le più studiate − e quelle che sinora hanno mostrato i più rilevanti effetti benefici per la nostra salute − sono sicuramente gli acidi grassi a catena corta.

Nell’intestino gli SCFA migliorano la motilità dell’organo e hanno un importante effetto protettivo sulle cellule di rivestimento interno esercitando una vera e propria azione antinfiammatoria. In questo modo contrastano l’insorgenza di malattie infiammatorie intestinali e di cancro del colon-retto (uno dei tumori più frequenti in Italia e nel mondo in generale).

Ma gli SCFA vengono anche assorbiti attraverso l’intestino e raggiungono, con la circolazione sanguigna, le cellule di altri distretti corporei condizionandone il funzionamento attraverso l’attivazione di alcuni geni umani coinvolti nella risposta immunitaria e nel metabolismo degli zuccheri e dei grassi. Il loro effetto complessivo si traduce quindi nella diminuzione del rischio di sviluppare obesità, di avere problemi cardiaci, di ammalarsi di diabete e di cancro in generale. Fonte:Koh

Questa nuova ottica ecologica permette di spiegare non solo i benefici degli alimenti vegetali ma anche gli effetti deleteri di un eccessivo consumo di carne.

Quando ci cibiamo di carne rossa o di salumi, offriamo ad alcuni ceppi batterici delle sostanze che loro trasformano in molecole pericolose per la nostra salute come, ad esempio, il famigerato ossido di trimetilammina (TMAO) che può causare problemi circolatori e aumentare il rischio di infarto cardiaco o di ictus cerebrale.

TMAO

La carne rossa e la carne lavorata (es. salumi e insaccati) contengono grandi quantità di L-carnitina che può essere trasformata in trimetilammina da alcune popolazioni batteriche intestinali. La trimetilammina prodotta dai batteri viene quindi assorbita nel sangue e trasformata a livello del fegato in trimetilammina-ossido (TMAO), una sostanza in grado di favorire l’accumulo di grassi, in particolare di colesterolo, nelle pareti delle arterie e di facilitare la formazione di coaguli nel circolo sanguigno. Le persone con un elevato livello di TMAO nel sangue hanno quindi una maggiore probabilità di sviluppare una malattia cardiovascolare, come ad esempio un infarto cardiaco o un’ischemia cerebrale.
Coloro che consumano carne rossa o carne lavorata in maniera abituale selezionano, a livello del loro intestino, popolazioni batteriche che sono in grado di sfruttare la L-carnitina per la loro sopravvivenza trasformandola in trimetilammina e hanno livelli di TMAO nel sangue pericolosamente alti. Al contrario, nelle persone che consumano grandi quantità di fibra vegetale (ad esempio i vegetariani o chi segue una dieta semivegetariana come quella mediterranea) i livelli di TMAO nel sangue sono molto bassi e non aumentano neanche dopo l’ingestione una tantum di un “carico” di L-carnitina (cioè di una quantità di L-carnitina pari a quella contenuta in una bistecca da 250 g) perché il tipo di alimentazione abituale ha promosso la proliferazione di popolazioni batteriche che basano il loro metabolismo su molecole di derivazione vegetale a discapito delle popolazioni che utilizzano la L-carnitina. Fonte:Koeth
Questa osservazione è importante perché ci fa capire che l’assunzione sporadica di carne rossa o di salumi in persone che seguono un’alimentazione prevalentemente vegetariana non ha nessuna conseguenza sulla salute.

Coloro che consumano carne rossa o salumi in maniera abituale selezionano, a livello del loro intestino, le popolazioni batteriche che vivono e prosperano utilizzando le sostanze contenute in questo tipo di alimenti a discapito delle popolazioni batteriche che vivono sfruttando le fibre vegetali. Nel loro sangue, di conseguenza, saranno presenti quantità elevate di sostanze nocive per la salute cardiovascolare (es. TMAO) e quantità più basse di sostanze protettive (es. SCFA).

Quindi il consumo abituale di carne rossa ci fa male perché va a nutrire dei batteri che hanno un comportamento involontariamente “malevolo” nei nostri confronti e li avvantaggiano nella competizione per le risorse rispetto ai batteri “benevoli” che invece sono nutriti da frutta, verdura, legumi e cereali integrali, cioè da cibi ricchi di fibre vegetali.

Un aspetto degno di nota è che l’effetto deleterio della carne rossa è legato al consumo abituale e non a quello occasionale e che le cose possono cambiare se si cambiano abitudini.

Sotto la pressione di un cambiamento di dieta duraturo nel tempo, il paesaggio microbico del nostro intestino può mutare nel giro di poche settimane. Se un vegetariano inizia ad assumere quotidianamente forti dosi di carnitina (una molecola molto abbondante nella carne che viene utilizzata come integratore nutrizionale da molti sportivi), nel giro di un mese presenterà livelli di TMAO nel sangue paragonabili a quelli dei consumatori abituali di carne rossa. Viceversa, un “carnivoro” che inizia a seguire un’alimentazione priva di carne rossa (vegetariana o semivegetariana), sempre nell’arco di quattro settimane, presenterà un crollo dei valori di TMAO nel sangue con conseguente abbattimento del rischio di ammalarsi di una malattia cardiovascolare. Fonte:Wang

Quando scegliamo che cosa mangiare scegliamo quindi quali batteri nutrire e a quali batteri dare un vantaggio rispetto agli altri

Esistono poi molti studi che hanno correlato la qualità del microbiota intestinale alla possibilità di sviluppare obesità, diabete, malattie intestinali e anche cancro.

Oggi si ritiene che alcuni microbi contribuiscano in maniera importante al rischio di cancro grazie alla loro capacità danneggiare il DNA delle cellule umane e di sovvertire i meccanismi di controllo sulla crescita e sulla proliferazione cellulare.

I batteri intestinali che sono favoriti da un’alimentazione di tipo “occidentale”, ricca di prodotti animali, di alimenti eccessivamente raffinati e di cibi industriali, producono alcune sostanze che indeboliscono le difese a livello dei tessuti, provocano mutazioni a livello del DNA, promuovono lo stato infiammatorio e stimolano la crescita delle cellule tumorali.

Viceversa, una dieta ricca di alimenti vegetali integrali favorisce la proliferazione di popolazioni batteriche che producono molecole che migliorano le difese a livello dei tessuti, limitano i danni a carico del DNA, riducono lo stato infiammatorio e inibiscono la crescita delle cellule tumorali. Fonte:Whisner

“Stiamo affamando il nostro sé microbico”

Dagli studi sul microbioma nelle diverse popolazioni del mondo emerge un altro dato significativo: le popolazioni di cacciatori-raccoglitori o le popolazioni rurali presentano una maggiore ricchezza di specie microbiche simbionti rispetto alle popolazioni dei paesi industrializzati. 

Non è ancora chiaro quale possa essere il significato di questa rilevazione ma alcuni indizi arrivano da un interessante esperimento condotto su topi di laboratorio da Erica e Justin Sonnenburg, microbiologi dell’Università di Stanford. Lo studio ha dimostrato non solo che un’alimentazione priva di fibre fa collassare la varietà dei microbi intestinali ma anche che la successiva reintroduzione delle fibre non riporta le cose perfettamente allo stato di partenza. La maggior parte delle popolazioni microbiche viene recuperata ma alcune specie sono perse per sempre. Inoltre questo impoverimento del microbioma si può trasmettere ai figli e può amplificarsi di generazione in generazione. Fonte:Sonnenburg

Questo meccanismo, se esteso all’uomo, potrebbe spiegare come mai gli occidentali presentano una varietà di microbi intestinali decisamente inferiore a quella degli abitanti dei villaggi rurali del Burkina Faso, del Malawi, del Venezuela e degli Hadza, popolazione di cacciatori-raccoglitori della Tanzania.

Mangiando cibi troppo raffinati, poveri di fibre vegetali, “affamiamo il nostro sé microbico” – per usare le stesse parole dei Sonnenburg – che si impoverisce di molte specie batteriche “protettive” e ci predispone alle malattie. Fonte:Sonnen

Microbi diversi,
diverso metabolismo

Le differenze nel microbiota possono contribuire a spiegare anche come mai le persone metabolizzano alcune sostanze in maniera diversa. 

Ad esempio, alcuni importanti effetti benefici della soia (tra cui la protezione dalle malattie cardiovascolari, dall’osteoporosi e dal cancro della prostata) derivano dalla capacità di alcuni batteri intestinali di modificare una molecola (daidzeina) presente nel legume e di trasformarla in una sostanza protettiva (S-equolo). È stato osservato che solamente il 25-30% degli occidentali è in grado di ricavare questa sostanza protettiva dalla digestione della soia contro il 50-60% dei giapponesi, dei coreani e dei cinesi. Pertanto, il noto effetto salutare della soia descritto nelle popolazioni asiatiche potrebbe non valere nelle popolazioni occidentali per la presenza di comunità microbiche differenti a livello intestinale che metabolizzano in maniera diversa le sostanze contenute nel legume. Fonte:Lozupone

Per concludere

Alla luce di queste nuove acquisizione, che cosa si può dire su quale sia l’alimentazione ottimale per la nostra specie?

Sicuramente una dieta varia, ricca di alimenti integrali, di ortaggi, verdure, semi e frutti interi per poter offrire ai nostri microscopici alleati la più ampia varietà di fibre, ma che ammetta anche piccole porzioni di alimenti animali per evitare di incorrere nelle carenze vitaminiche tipiche delle diete rigidamente vegane che possono mettere a repentaglio il nostro benessere causando problemi di anemia e disturbi neurologici anche importanti.

D’altro canto, questo nuovo filone di ricerca mette in evidenza anche quanto possiamo essere diversi l’uno dall’altro in termini di benefici ricavabili da un determinato modo di alimentarci. Il microbiota di ognuno di noi è unico ed è influenzato non solo dai cibi che mangiamo ma anche dal nostro DNA, dalla nostra età, dall’ambiente in cui viviamo, dalle persone e dagli animali che incontriamo e con i quali scambiamo microbi in maniera inconsapevole.

In futuro il nostro stato di salute e di benessere potrà essere migliorato attraverso una personalizzazione mirata della nutrizione che tenga in considerazione il nostro profilo genetico, le caratteristiche “di partenza” del nostro microbiota, il nostro stile di vita e le nostre abitudini alimentari. Molte malattie potranno quindi essere prevenute o mitigate grazie a un riequilibrio delle nostre comunità microbiche con l’ulteriore possibilità di reintrodurre eventuali specie batteriche perdute. Fonte:Sonnenburg

Il fascino di questo nuovo approccio e delle opportunità che può offrire è ben espresso dalle parole di David Relman, microbiologo dell’Università di Stanford e pioniere della ricerca sul microbiota umano: “questi studi svelano la bellezza nella biologia. Siamo creature sociali e cerchiamo di capire le nostre connessioni con altre entità viventi. Le simbiosi sono l’esempio massimo del successo attraverso la collaborazione e dei potenti benefici delle relazioni intime”. Fonte:Relman

Per quanto mi riguarda, invece, so che mi aspetta un lungo lavoro con mia figlia e la sua idiosincrasia per il verde.

MARIANNA RINALDI nasce a Torino, dove si laurea in Medicina e Chirurgia. Da sempre interessata alla dimensione naturale dell’uomo, si laurea poi in Evoluzione del Comportamento Animale e dell’Uomo all’Università di Torino e consegue il dottorato in Etologia, Ecologia animale e Antropologia all’Università di Firenze. È appassionata di musica jazz, libri e cioccolato (non necessariamente in quest’ordine).

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