MONNALISA BYTES

Science Storytelling

13′ 43″

Cervelli in viaggio

Testi Iary Davidzon
Immagini Lucrezia Di Feo
Esiste davvero il cervello in fuga?

Oslo, 6 Ottobre 2021:
“And the winner is…”

Mancano poche ore all’annuncio dei vincitore del Nobel per la fisica 2021. Nell’attesa  ripenso all’anno scorso –  il tumultuoso 2020 –  quando esattamente in questi stessi giorni Reinhard Genzel, Andrea Ghez, e Roger Penrose venivano insigniti del Nobel per la Fisica. Il premio è stato loro assegnato per gli studi osservativi (Genzel, Ghez) e teorici (Penrose) sui buchi neri e quindi in qualità di astrofisico mi fa piacere parlarne. Si tratta di lavori non particolarmente recenti Fonte:Nobel, e sufficientemente consolidati da entrare nei libri di testo universitari già all’epoca in cui ero studente – quando Instagram eran ancora agli albori, nel lontano 2012.

Ad essere precisi – come ogni ricercatore dovrebbe essere – il termine “buchi neri” viene usato solo nelle motivazioni di premiazione di Penrose; Ghez e Genzel sono stati i primi a scoprire il super-massive black hole al centro della nostra galassia, ma nonostante il consenso quasi unanime della comunità scientifica la Reale Accademia delle Scienze Svedese ha preferito mantenersi sul vago e menzionare un “oggetto compatto super-massiccio”. In effetti la cautela – come ogni ricercatore dovrebbe sapere – è d’obbligo quando mancano prove dirette: il fatto che le stelle circostanti orbitino attorno al nucleo della Via Lattea a tale velocità potrebbe essere dovuto all’attrazione gravitazionale di un’immensa discarica di rifiuti aliena – la quale dovrebbe contenere circa 1034 tonnellate di robaccia compattata in un volume inferiore a quello compreso entro l’orbita terrestre.

Per esperienza professionale penso (e spero) di avere una certa familiarità con l’argomento, che quindi non sono andato ad approfondire. E poi non è esattamente la mia idea di ingannare piacevolmente il tempo finché non si conosceranno i nuovi nomi illustri.  Ho invece deciso di leggermi le biografie dei tre scienziati premiati nella scorsa edizione sperando di trovare qualche aneddoto interessante, dato che la combinazione scienza & gossip ha su di me lo stesso effetto di maccheroni e cacio (rispettivamente). Ho anche tentato in varie occasioni a convincere lo staff di questa testata a includere una rubrica “Posta del cuore e del cervello” ma apparentemente non è in linea con la politica editoriale – peccato, perché avrebbe ricevuto parecchia corrispondenza da chi soffre l’amore non corrisposto per Alberto Angela… voi che leggete potreste magari spedire un email a Monna Lisa per supportare l’idea. 

Con non poco disappunto, Wikipedia non ha offerto nessuno spunto malizioso (avrei invece dovuto leggere Der Spiegel). Mi sono allora soffermato su un altro aspetto: gli spostamenti che i tre Nobel Laureates hanno affrontato lungo la propria carriera. Riassumiamoli per ciascuno, in ordine di anzianità – perché se non fosse chiaro, sopra li ho elencati in ordine alfabetico.

Penrose

studia a Londra, dottorato a Cambridge nel 1958 dove ottiene anche una borsa di ricerca (fin qui è un matematico puro). Lavora poi a Princeton (New Jersey, USA), Syracuse University (New York) e un anno all’università del Texas in quella che è probabilmente la città meno texana di tutto lo Stato (Austin). Torna stabilmente in Inghilterra nel 1964 e inizia ad occuparsi di cosmologia – consistenza dello spazio-tempo, nascita e morte dell’Universo, buchi neri… ottima scelta, Sir Roger! Km percorsi: 19.500.

Genzel

Studia tra Friburgo e Bonn, dove ottiene anche il dottorato (1978). Sbarca poi negli States (Center for Astrophysics, Smithsonian-Harvard) e non perde l’occasione per un coast-to-coast dal Massachusetts all’università di Berkeley in California.  Torna in Germania, a Monaco di Baviera, dove riveste attualmente il ruolo di direttore al Max Planck Institut für extraterrestrische Physik – un celebre istituto di ricerca di “fisica extraterrestre” che a dispetto del nome non si occupa più di tanto di forme di vita aliene. Km percorsi: 20.300.

Ghez

Inizia il suo percorso di formazione a Chicago, laureandosi in Fisica al MIT nel 1987 – quando Genzel aveva lasciato la città da circa una decina d’anni. Completa il dottorato al California Institute of Technology (Caltech). Dopo una parentesi in Arizona torna a lavorare in Southern California, a UCLA. Km percorsi: 7.000. 

Probabilmente ho notato questo aspetto nelle loro biografie perché è l’unica cosa che ci accomuna, in quanto sotto ogni altro aspetto la mia carriera di astrofisico non è paragonabile. Non è ovviamente una coincidenza: questo tipo di odissea professionale è il comun denominatore dello scienziato moderno, iniziando da Galielo Galilei il quale si trasferì da Pisa a Padova – dove apprezzò l’ambiente liberale e intellettualmente stimolante – e successivamente a Firenze – dove apprezzò lo stipendio 5 volte maggiore (e senza obblighi di insegnamento!) rispetto alla cattedra padovana. 

Le ragioni di questi spostamenti sono molteplici, un misto di vocazione – collaborare con nuovi colleghi, avere accesso a diverse strutture/risorse, etc. – ma anche necessità legate all’atipica situazione occupazionale dei ricercatori. È facile cadere nella tentazione di parlare di “fuga di cervelli”, specialmente in campo astrofisico dove il numero di dottorati cresce molto più rapidamente dei nuovi posti di lavoro. Fonte:Kame Senza negare l’esistenza di tale problema, vale forse la pena controbilanciare l’immagine del ricercatore errante-et-infelice con una narrativa diversa: cervelli on the road piuttosto che scappati di casa.  Una prospettiva che si potrebbe applicare più in generale, anche al di fuori del mondo dell’Astrofisica, per evitare di cadere in facili stereotipi. 

Non c’era forse un tempo in cui essere cittadini del mondo assumeva aspetti positivi? Ovviamente questo implica anche una serie di compromessi che non tutti giudicherebbero accettabili: vivere in affitto, non avere i genitori accanto che aiutino coi nipotini, poter mangiare del pane decente solo pagandolo a peso d’oro. Ma visto che questi sono tempi duri, perché non ci prendiamo una pausa dalla contemplazione della miseria umana e diamo uno sguardo ai “precari felici” che viaggiano per scelta e non per fuggire da qualcosa? Assumendo che vincere il Nobel ti renda felice, e in retrospettiva ti faccia ripensare teneramente a quel periodo della vita in cui dovevi cambiare casa ogni 2-3 anni e non avevi 8 milioni di corone svedesi sul conto in banca. 

Fatto 3,
tanto vale fare 26. 

Con la curiosità di tracciare una mappa delle migrazioni illustri, sono andato a cercare i CV di tutti gli astrofisici insigniti di un Nobel. Se non ho sbagliato i conti sono ventisei persone – Andrea Ghez l’unica donna – su un totale di circa 215 scienziati – dico “circa” perché ho il timore di aver considerato due volte Marie Skłodowska Curie, e non ho voglia di mettermi a contare da capo. Per la cronaca, il primo astro-Nobel fu Victor F. Hess nel 1936, trentacinque anni dopo la prima edizione assegnata a W.C. Röntgen (pioniere dei raggi X). E anche Hess come Curie mi procura qualche problema nel calcolo, perché la sua scoperta dei raggi cosmici è a metà strada tra Astrofisica e Fisica delle particelle. Nonostante l’errore sperimentale, possiamo affermare che da quando fu istituito nel 1901, il Nobel per la Fisica è stato assegnato ad un astrofisico nel 10-12% dei casi. La percentuale sale ad un impressionante 30% se si considerano solo i risultati del XXI secolo. Salvo rari casi, questi esimi astrofisici hanno accumulato parecchie miglia sulla loro tessera fedeltà, confermando l’impressione avuta con Penrose, Ghez, e Genzel (stavolta in ordine decrescente di h-index, l’indice bibliografico che misura l’impatto scientifico del corpo di pubblicazioni di un autore). Ovviamente stiamo parlando di una élite di scienziati che non rappresenta necessariamente le caratteristiche del ricercatore medio. Ma è interessante notare che pur aver conseguito il dottorato in posti di altissimo prestigio, il passo successivo è stato cercare una posizione lavorativa da un’altra parte. Ovviamente non si può escludere che si sia trattato di necessità, ma è legittimo ipotizzare che degli studenti così brillanti avrebbero trovato un’occasione per non partire. Il sistema della ricerca favorisce tale mobilità: ad esempio l’Unione Europea ha schemi di finanziamento in cui è espressamente richiesto che il progetto di ricerca venga eseguito in uno Stato dove il beneficiario non risiede attualmente. La stessa filosofia si applica al ben noto programma Erasmus, che in più di trent’anni anni ha consentito a milioni di cittadini europei di spendere un soggiorno di studio all’estero.  

Lo stesso Hess è probabilmente colui che ha viaggiato meno, avendo speso la sua carriera quasi interamente in Austria. Ma anche lui a un certo punto deve essersi convinto dell’importanza di cambiare prospettiva e si prese un paio di anni sabbatici per lavorare negli Stati Uniti. Ora che ci faccio caso, anche Mayor & Queloz – scopritori di un pianeta orbitante una stella simile al Sole – sono sempre rimasti in tra Losanna e Ginevra: forse c’è qualcosa di speciale sulle Alpi di cui non siamo a conoscenza?

Tutti gli altri hanno studiato e lavorato in almeno tre posti diversi.  Non sorprende che nella maggior parte dei casi si tratti di istituti di altissimo livello: Princeton ha ospitato il maggior numero di premi Nobel (7) seguita a ruota da Harvard, California Institute of Technology  (Caltech), Università della California a Berkley, Massachusetts Institute of Technology (MIT)  Non è ovviamente semplice questione di prestigio. Ogni università ha laboratori diversi e offre differenti competenze nel proprio staff. Berkley ad esempio non è universalmente famosa come Harvard ma ha accesso privilegiato alla coppia di telescopi Keck che sono in cima alla classifica dei telescopi più importanti del mondo. Inoltre ha una tradizione astronomica che parte dagli anni ’70 del XIX secolo, poco dopo l’installazione di MIT e con una ventina d’anni in anticipo rispetto a Caltech. 

TOP-5 DEI TELESCOPI CAMPIONI DEL MONDO

Innanzitutto, è bene precisare tre cose. La prima è che non stiamo parlando di comuni cannocchiali, che sono dei rifrattori, bensì di telescopi, che hanno un sistema di specchi molto più efficiente (per cui vengono detti telescopi riflettori). La seconda è che stiamo restringendo il discorso a telescopi che osservano luce visibile (o se preferite, radiazione elettromagnetica nello spettro ottico con lunghezze d’onda tra i ~300 e i ~1000 nanometri) e la terza è che non ci vogliamo limitare a metterli in ordine di dimensione. Ma poi dimensioni di cosa? I più potenti telescopi al mondo non sono rifrattori – come sarebbe la struttura di un comune cannocchiale – bensì hanno un sistema di specchi (per cui vengono detti telescopi riflettori) molto più efficiente. Potremmo usare come criterio lo specchio primario, ovvero quello di dimensioni maggiori, viene sovente usato come metro di paragone; ma a me come criterio non piace tanto, perché le dimensioni contano ma solo fino a un certo punto. La collocazione ad esempio è altrettanto importante: la qualità delle immagini prese a >4200 m d’altezza sul monte Mauna Kea alle Hawaii – mica male lavorare lì, vero? –  è di gran lunga superiore a quelle che si otterrebbero col medesimo strumento all’Osservatorio delle Gran Canarias, e non solo per l’altitudine inferiore (2200 m circa, quindi uno strato di atmosfera più spesso) ma anche per le particelle di umidità che rendono l’immagine più sfocata. E nel caso vi interessaste stupire gli amici con fotografie astronomiche mozzafiato (magari non con lo smartphone, per favore) invece che alle Hawaii potete anche organizzare un viaggetto sugli altopiani del Cile – altra splendida location per osservare le stelle. Dunque come stilare la classifica? All’inizio del XXI secolo, Benn & Sanchez Fonte:Benn suggerirono di guardare al numero di articoli pubblicati sfruttando i dati raccolti con un dato telescopio. A quell’epoca, Keck (col suo specchio primario di 10m di diametro) era secondo in termini di “prolificità” solo al telescopio spaziale Hubble (2.4m, ma in orbita fuori dall’atmosfera terrestre). Sul podio anche il Canda-France-Hawaii Telescope, situato a pochi metri di distanza da Keck, che riesce a essere competitivo nonostante i “soli” 4 m di diametro.  Ma proprio alla fine degli anni ’90 è diventato operativo il Very Large Telescope dell’ESO (Osservatorio Europeo del Sud, chiamato così visto che i finanziatori sono Stati europei ma i suoi telescopi sono in Cile) il quale ha soppiantato l’egemonia (a terra) di Keck. Da un certo punto di vista barando, visto che si tratta di un complesso di ben quattro telescopi, ciascuno classe 8 m. Hubble è ancora inarrivabile in termini di impatto scientifico, ma va anche considerato che mantenerlo operativo costa 100 volte più di un telescopio terrestre. Per quanto riguarda il Nobel per la fisica 2020, le ricerche sono state condotte sia con Keck (Ghez) sia con ESO/VLT (Genzel). 

Cambridge è la méta più visitata nel Vecchio Continente, e mi spiace per l’antica rivalità con Oxford ma l’unico affiliato a quest’ultima, oltre Penrose, è Sir Martin Ryle. E a dirla tutta, Cambridge supera Oxford anche nel conteggio dei Nobel in generale: 110 vs 56. L’Università Statale di Milano compare nell’elenco in quanto ha dato i natali scientifici a Riccardo Giacconi – uno dei padri dell’astronomia a raggi X. Una menzione speciale per Subrahmanyan Chandrasekhar (esperto in fisica stellare) che da Madras (India) ottenne una borsa di studio per l’università di Cambridge, 8200 km lontano da casa – anche se immagino il viaggio sia stato molto più lungo dato che nel 1930 difficilmente ci sarà stato un volo diretto. 

Piove sul bagnato

Oltre agli spostamenti, ciò che attira l’attenzione è la ricorrenza di certi luoghi nelle statistiche. L’Alma Mater del 50% del nostro campione è stata uno di questi atenei: Cambridge, Harvard, Berkley, Caltech – in ordine cronologico di fondazione. Dunque, se state pensando di vincere un Nobel in astrofisica, o siete indecisi su dove far studiare i vostri figli, ora sapete come aumentare le vostre probabilità di successo. E non solo per la qualità degli insegnamenti e della ricerca, ma anche perché anche in campo accademico “piove sul bagnato”. Infatti, le candidature per il Premio Nobel vengono proposte da un gruppo di qualified nominators, i quali inviano dei nominativi alla Commissione Nobel. Vincitori degli anni precedenti sono inclusi tra i nominators, quindi se lavorate nello stesso ateneo di un Nobel Laureate – e non vi dimenticate di portare loro il caffè ogni mattina – avete qualche speranza in più che il vostro nome finisca nell’elenco dei candidati. Altri autorizzati a inviare candidature sono:

Queste “altre università” interpellate devono essere per statuto almeno sei… non sono riuscito a trovare l’elenco – quindi non posso escludere siano 54 ma comunque è chiaro come i Nobel Laureates abbiano un ruolo non irrilevante nel processo. Non per tutti i premi Nobel è così. Per esempio, la voce dei precedenti vincitori nel caso del Nobel per la Pace è sommersa nel suk di candidature che vengono proposte, tra gli altri, dai membri di qualunque assemblea o governo nazionale, e da professori (emeriti, associati, ordinari) di Storia, Scienze Sociali, Legge, Filosofia, Teologia e Religione di qualunque ateneo, in aggiunta ai rettori universitari e direttori di istituti di ricerca di Politica Estera o per la Pace. 

Forse al lettore girerà la testa dopo tutte queste divagazioni, e potrebbe provare un po’ di nostalgia dell’Italia. E allora concludiamo questa panoramica dando uno sguardo alla situazione dell’Astrofisica nella nostra penisola. Senza pretesa di completezza, ma giusto per dare un’indicazione aneddotica, ho scaricato l’elenco dei 571 dipendenti e associati INAF (Istituto Italiano di Astrofisica) aggiornato al 7/3/2021. Il CV non è riportato, quindi bisogna basarsi sulla geografia dei nomi per identificare coloro che hanno speso parte della loro carriera in altri Paesi. Il procedimento è incompleto nella misura in cui anche un Mario Rossi potrebbe aver viaggiato a lungo prima di ritornare lavorare a Roma – per quanto ne sappiamo, Mario Rossi potrebbe essere nato e cresciuto in Australia e no aver mai visto Roma prima d’ora. Nonostante questo, il conteggio dei nomi di origine straniera (37 in tutto) è un robusto limite inferiore perché ho verificato (grazie a un celebre motore di ricerca su internet) che si tratta di astrofisici che hanno attraversato almeno un confine (per restare in Italia permanentemente o no, non è dato sapere). Inoltre è un buon indicatore della diversità in seno all’INAF: queste 37 persone hanno studiato all’estero ed è lecito sostenere che portino un contributo diverso da quello di ricercatori italiani formatisi in Italia, rimasti all’estero per alcuni (o per molti) anni e poi tornati. Comunque 37 su 571 significa il 6%. Sinceramente mi aspettavo peggio (Intuitivamente mi aspetterei percentuali ben più alte anche solo in Francia (INSU-CNRS). Ma non riesco a trovare dei dati).

E PER I DOTTORANDI?

Ho fatto una cosa simile per i 162 dottorandi sparsi per il Paese con un’affiliazione INAF. 26 hanno un nome di origine straniera. Rappresenterebbero il 16% degli iscritti, una percentuale da maneggiare con cautela per gli stessi motivi spiegati nel corpo del testo. Non è comunque distante dal ~20% degli studenti internazionali nel Regno Unito, che in quel caso può vantare maggior attrattiva sul bacino degli studenti nord-americani (per motivi di lingua) e cinesi (i quali costituiscono circa il 30% degli arrivi da oltremanica). 

E con quest’ultima tappa in Italia è giunto il momento di terminare il nostro viaggio. Anche se su binari un po’ sgangherati, abbiamo toccato diversi aspetti riguardanti la mobilità scientifica. Non ho dimostrato nessuna tesi ma spero di aver fornito qualche spunto di riflessione. E se così non fosse, mi rifaccio alle celebre frase di Jack Kerouac: 

Live, travel, adventure, bless, and don’t be sorry.

IARY DAVIDZON, astronomo (attualmente Marie Skłodowska-Curie Fellow), lavora presso il Niels Bohr Institute di Copenaghen. Coi i suoi colleghi analizza le galassie più lontane mai osservate e discute di basket durante la pausa caffè. Vorrebbe capire meglio l’universo primordiale ma non gli basta il tempo (troppi caffè?). Nel weekend fa cose tanto interessanti che non bastano 400 caratteri per descr

LUCREZIA DI FEO, dopo un percorso di studi di tipo umanistico, si è appena laureata in Design della Comunicazione. Il suo sogno nel cassetto è quello di diventare una fumettista professionista e di pubblicare storie e racconti su personaggi inventati da lei. La sua seconda passione sono i suoi amici a quattro zampe Ben e Mia.