MONNALISA BYTES

Science Storytelling

11′ 47″

Migranti per natura

Testi Giulia Colombo
Immagini Alessandra Giordano
Gli uccelli migratori sanno condividere il territorio. Perchè noi no?

Alcuni ornitologi dicono che non esiste uccello che non migri. Dalle migrazioni locali dei merli, alle migrazioni circum-oceaniche delle sterne artiche, il concetto è il medesimo: un uccello ha un habitat molto più esteso dello spazio che fisicamente occupa o frequenta con assiduità. Ma è un habitat che cambia nel tempo, naturalmente frammentato e condiviso. Molte specie e molti individui della stessa specie si alternano in un regime di pressoché non belligeranza o, se ci sono scontri, si tratta di trattative a base di rituali standardizzati che limitano l’abuso della violenza. Al contrario, gli esseri umani tendono ad ampliare a dismisura i propri mezzi materiali e simbolici di dominanza, sfociando spesso in confronti violenti. Il radicamento post-neolitico alla propria terra può generare un cortocircuito per cui la patria diventa insostituibile in nome di quella stessa cultura che ci ha permesso di scoprire come la nostra sia essenzialmente una storia di incessanti migrazioni.

Long live the pioneers
Rebels and mutineers
Go forth and have no fear
Come close and lend an ear”
– X-Ambassadors, Renegades

Se avessimo un capanno nel Delta del Po, dove trascorrere le sere della domenica a contemplare il tramonto – come succede nei migliori film romantici – avremmo un’esperienza intima del passaggio dei grandi stormi di uccelli migratori durante le stagioni di grande transito. Ma basterebbe un poco più di attenzione per tracciare anche i movimenti meno evidenti dei vicini pennuti nel corso dell’anno: presenze ricorrenti ma mai stabili, come la marea che va e viene al suo ritmo. Da un anno all’altro, a primavera, lo stesso grande albero si riempie dei nidi degli aironi cinerini (Ardea cinerea) in cima e delle garzette (Egretta garzetta) sui rami bassi; le stesse rive del canale si costellano dei nidi galleggianti di svasso maggiore (Podiceps cristatus), e i cormorani (Phalacrocorax carbo) occupano i posatoi preferiti sui pali di legno conficcati nella laguna. D’inverno, gli stessi inquilini vagano, più solitari e sparsi, nelle zone umide a caccia degli insetti e dei pesci rimasti, nonostante il freddo. La bella stagione, però, pullula anche di ospiti arrivati apposta per nidificare da Sud, come la nitticora (Nycticorax nycticorax), che popola le sere col suo quack! sonoro; la sterna comune (Sterna hirundo), che fa il nido sui greti sassosi e vola con la grazia precisa di una freccia; e il mignattaio (Plegadis falcinellus), col becco del dio Thot e lo splendido piumaggio nero iridescente come uno smalto. D’inverno, invece, qualche quattrocchi (Bucephala clangula) bianconero e i beccaccini (Gallinago gallinago) dal Nord Europa sfuggono dal gelo nelle acque miti della laguna adriatica. Tutto scorre liscio come l’olio, senza clangori, marce o guerre di conquista, al massimo qualche rissa, dimostrazioni di forza e sfoggio di penne meravigliose come segno di forza e potere. Infatti, la competizione è tanto più alta quanto più elevata è la densità delle popolazioni pennute, ma anche le specie solitamente solitarie, durante la stagione riproduttiva, sono capaci di tollerare alte concentrazioni di individui attraverso la spartizione del territorio e delle risorse. I territori di caccia e nidificazione migliori vanno alle coppie dominanti (più anziane, esperte, o piene di energia), ed è più probabile che gli individui subordinati fatichino a riprodursi o a sopravvivere a causa del proprio territorio non ottimale che non per gli scontri aggressivi con altri competitori, specialmente dopo le schermaglie iniziali per la definizione delle gerarchie.

Gli uccelli, infatti, hanno un habitat molto più esteso dello spazio che fisicamente occupano, un habitat frammentato nei siti di riproduzione e svernamento, posatoi e terreni di caccia, e necessariamente condiviso con molte altre specie, oltre che con molti conspecifici. Scontrarsi ferocemente per le risorse sarebbe estremamente dispendioso, perciò questa territorialità espansa si basa su scontri continui ma a bassa intensità, su trattative a base di rituali standardizzati che includono segnali di aggressività come manovre di volo, rigonfiamento delle penne e vocalizzi bassi. Le garzette, per esempio, si spartiscono il territorio di caccia con semplici dimostrazioni di stazza: sfilano parallele avanti e indietro lungo il tratto di terreno dove si sono incontrate, guardandosi negli occhi e rizzandosi tutte, penne comprese, per valutare la forza fisica, lo stato di salute e la predisposizione a combattere di entrambe. Vince quella che ha la più alta combinazione di ardimentosità e forza: non serve quasi mai arrivare a beccarsi sul serio. Più “manesche” sono le gallinelle d’acqua che arrivano a darsi zampate in acqua per definire chi sarà il maschio dominante che formerà la coppia riproduttiva con la femmina. I rapaci si fanno più male, perchè hanno becchi adunchi e artigli affilati, ma raramente riportano ferite mortali dopo uno scontro in volo, evento comunque abbastanza raro. Il punto è intimorire, non ammazzare: tutti questi gesti rituali limitano molto l’abuso della violenza e gli scontri cruenti. Inoltre, gli scontri molti-contro-uno sono pressoché limitati al mobbing delle prede o comunque di individui più piccoli contro i predatori solitari – una sorta di alleanza contro una comune minaccia. Gli uccelli sembrano essersi evoluti in modo che, quando la competizione si fa dura, cerchino la propria nicchia ecologica altrove rispetto al terreno di contesa, secondo la logica: ognuno per la sua strada.

Questo aspetto della vita sociale degli uccelli si è strettamente coevoluto con la loro attitudine agli spostamenti e alla migrazione: la stragrande maggioranza degli uccelli si muove sempre, tanto o poco. Fonte:Peter Fonte:Ian Il merlo (Turdus merula) ogni giorno si sposta di pochi chilometri per nutrirsi, setacciando con attenzione una manciata di prati e cespugli intorno al posatoio della sera, e facendo tappa ogni tanto alla fontana o al fiumiciattolo per abbeverarsi. Questi movimenti pendolari giornalieri di solito sono brevi e localizzati, ma possono anche estendersi per centinaia di chilometri se si tratta di uccelli di mare che cacciano al largo, come gli albatros. Inoltre, i giovani esemplari, a fine stagione riproduttiva, si allontanano da dove sono nati per trovare nuovi territori in cui insediarsi. Questa dispersione “di sola andata” di solito non si svolge su enormi distanze, perché il suo scopo è solo quello di non creare competizione tra la nuova generazione e le precedenti, come avviene per le capinere (Sylvia atricapilla) dell’anno che cominciano a migrare per prime verso i quartieri di svernamento in autunno.

La migrazione che solitamente abbiamo in mente, invece, è un movimento pendolare stagionale di enormi masse di uccelli in cui c’è un viaggio di andata verso alcune località – quartieri di svernamento – e di ritorno verso i siti di riproduzione. Fino a 5 miliardi in partenza dal Nord America verso Sud, e analogamente più di 5 miliardi che dall’Eurasia raggiungono l’Africa per svernare; in totale, nel mondo, almeno 50 miliardi di uccelli migrano su 200-400 miliardi.  Gli spostamenti avvengono durante lo stesso periodo ogni anno e il viaggio è medio-lungo, lungo o lunghissimo, e segue rotte ben definite. Il motivo principale della migrazione è, infatti, lo stesso che spinge i pastori durante la transumanza tradizionale per assecondare le esigenze del bestiame: la variazione durante l’anno della disponibilità di cibo, risultante dall’alternanza delle stagioni calde e fredde alle alte latitudini o di quella secca e delle piogge ai tropici. I migratori tipici in Italia sono le rondini (Hirundo rustica), i gruccioni (Merops apiaster), gli usignoli (Luscinia megarhynchos), le cicogne bianche (Ciconia ciconia), i pivieri dorati (Pluvialis apricaria). Ma la migrazione più lunga tra gli uccelli è quella della sterna codalunga (Sterna paradisaea), che arriva a 70,900 km per gli individui che nidificano in Islanda e Groenlandia e svernano tra Sudafrica e Antartide.

Questi movimenti ordinati e ritmici, come le onde, sono l’inverso delle irruzioni o invasioni, che – un po’ come quelle barbariche – sono movimenti di espansione o ricollocazione straordinaria e imprevedibile di alcune popolazioni di uccelli, causate da penurie anomale di cibo o eventi meteorologici estremi. Le peppole (Fringilla montifringilla) e i beccofrusoni (Bombycilla garrulus) in inverno invadono periodicamente il Nord Est Europa in cerca di faggiole e sorbe: le ragioni di queste irruzioni sono simili a quelle delle migrazioni umane, cioè grande densità di popolazione e scarsità di cibo. Ma anche il nomadismo è uno stile di vita comune tra alcuni popoli e alcune specie di uccelli: i popoli nomadi delle regioni aride, come i maori dell’età arcaica, i nativi americani od i tuareg, hanno un rapporto flessibile con il territorio, ovvero si spostano seguendo le risorse di cui hanno bisogno senza stabilirsi definitivamente in un luogo, allo stesso modo degli uccelli erranti, che non si fermano mai in un’area precisa ma seguono la disponibilità di cibo e si riproducono quando le condizioni ambientali lo permettono. I crocieri (Loxia curvirostra), per esempio, inseguono continuamente i pinoli, di cui si cibano quasi esclusivamente e che maturano sulle conifere una volta ogni tre o quattro anni, in modo sincrono su vaste aree, e così facendo i crocieri percorrono nel tempo l’intera estensione delle foreste alpine di conifere e della taiga dell’emisfero Nord.

La maggioranza degli uccelli pratica una o due di queste forme di movimento ricorrente, la cui intensità varia tra gruppi diversi nella stessa specie – cioè, in gergo tecnico, di popolazione in popolazione. Ma come mai gli uccelli non stanno mai fermi? Tante sono le ipotesi, ma la più accreditata è che gli uccelli antichi si fossero adattati alla variabilità delle condizioni ambientali sviluppando la migrazione parziale, in cui una parte della specie migra, mentre le altre popolazioni rimangono stanziali nei territori di cova, e che questo comportamento si sia fissato nel genoma degli uccelli moderni. Tuttora, infatti, la migrazione parziale è in assoluto la più diffusa e ha un forte potenziale microevolutivo, ovvero è una sorta di piattaforma girevole da cui, a seconda delle pressioni ambientali, parti più o meno grandi della popolazione possono essere selezionate come uccelli migratori. Le condizioni che portano di volta in volta le diverse specie di uccelli ad adottare un regime più migratorio che stanziale consistono nella pressione selettiva operata da diversi fattori, quali la stagionalità, la competizione, la predazione e la fuga dalle malattie, analogamente a quanto accadde durante l’evoluzione umana con le diverse ondate migratorie out of Africa.

Dopo la sua uscita dall’Africa, Homo sapiens ha colonizzato tutto il mondo in un tempo molto ristretto, modificando l’ambiente e costruendosi, cioè, la nicchia ecologica in cui vivere con successo. Gli uccelli, invece, non hanno inciso drasticamente sul proprio ambiente durante l’evoluzione, ma hanno seguito la strategia evolutiva inversa: hanno sviluppato una grandissima flessibilità e resilienza alle perturbazioni ambientali proprio grazie all’adozione degli spostamenti migratori. Le poiane delle savane (Heterospizias meridionalis), le urubitinga (Urubitinga urubitinga), i karakara (Polyborus plancus), gli avvoltoi collorosso (Cathartes aura) e i rondoni dal collare (Cypseloides zonaris) sono detti accompagnatori del fuoco, perché seguono il fronte degli incendi durante i roghi della savana sudamericana alla fine della stagione secca e si cibano degli animali in fuga dalle fiamme. Gli uccelli che si cibano di nettare, dei frutti o dei semi, invece, seguono le fioriture; gli uccelli marini fuggono dal ghiaccio, i migratori dalla neve o dal maltempo, dalla penuria o dalla siccità. I rondoni (Apus apus), maestri assoluti del volo, fuggono dalle intemperie restando in aria, cioè compiendo voli ciclonici che aggirano la parte più violenta delle tempeste o intere zone di depressione atmosferica, rimanendo lontani dai nidi anche giorni o settimane, mentre i piccoli si intorpidiscono per resistere al digiuno.

Sebbene le ragioni per la migrazione si somiglino tra animali diversi, gli esiti di un tale spostamento sono radicalmente diversi a seconda dell’ecologia della specie: noi umani ci siamo sempre mossi sulla Terra alla ricerca di nuovi territori e nuove risorse, ma non ci siamo mai universalmente adattati a vivere in maniera non stanziale su periodi di tempo inferiori alla durata media della vita, a differenza degli uccelli che hanno fatto della mobilità la loro regola di vita. Inoltre, per noi esseri umani è abbastanza comune “venire alle mani” anche per motivi non di vita o di morte, specialmente se in molti si scagliano contro uno solo (meccanismo del capro espiatorio) oppure se gli schieramenti a confrontarsi sono compatti e si contendono le stesse risorse o lo stesso territorio (le guerre armate). In più, la dimensione simbolica dell’essere umano associa spesso significati precisi a determinati luoghi, rendendoli insostituibili. La guerra israelo-palestinese è un conflitto che scaturisce dalla dimensione culturale di insostituibilità della patria, un prodotto del cambiamento culturale iniziato con la transizione neolitica e il passaggio dalla flessibilità nomade alla sedentarietà.

Ma è stata l’agricoltura a rendere territoriale e aggressivo l’uomo? Un caso esemplare è quello dell’incontro tra i maori, popolo di agricoltori bellicosi, e i moriori, popolo di cacciatori-raccoglitori, che si è verificato nel 1835 nelle isole Chatham, a est della Nuova Zelanda. Fonte:Jared I moriori risiedevano su queste isole da circa tre secoli, durante i quali da agricoltori erano tornati cacciatori a causa della rigidità del clima che non consentiva l’agricoltura e avevano culturalmente abolito la guerra, in quanto inutile dispendio di energie in un ambiente ostile, quindi le dispute venivano risolte attraverso lotte puramente rituali e negoziati. I maori giunsero sulle Chatham su una nave europea impegnata in traffici commerciali e invasero armati tutto il territorio: i moriori, secondo la loro tradizione, tentarono una spartizione pacifica delle risorse, mentre i maori non risposero neppure, sterminando tutta la popolazione a meno di pochi superstiti, resi schiavi. Dunque, sembra che un fattore importante per catalizzare la violenza bellica e omicida come culmine di una competizione sia la sicurezza delle proprie risorse, la consapevolezza della propria superiorità tecnica e la tipica socialità umana, grazie alla quale creiamo alleanze e comunità che ci permettono di sopravvivere, ma anche di conquistare e sottomettere con la forza. Infatti, la violenza individuale è diffusa tra i mammiferi e può essere efferata, ma sembra essere tipica degli uomini (oltre che molto antica, essendo l’esecuzione di massacri collettivi documentata anche prima della transizione neolitica). La definizione della dominanza, più che la difesa di un preciso territorio, sembra quindi associata nell’uomo anche all’espansione delle risorse, siano esse reali o simboliche.

Tuttavia, la stessa cultura e capacità simbolica che ci hanno reso territoriali e violenti, potrebbero fare argine alle peggiori manifestazioni della natura umana? Abbiamo appreso dagli uccelli come progettare delle macchine volanti efficienti, chissà che non impariamo da loro anche come si convive migrando ed evitando le guerre mondiali.

GIULIA COLOMBO è una biologa appassionata di neuroscienze e di elettrofisiologia. Dottoranda in Medicina molecolare e traslazionale presso l’Università di Milano-Bicocca, sta approfondendo la sua preparazione alla ricerca sulle malattie neurologiche, senza mai dimenticare, però, l’interesse per tutte le forme di vita non umane. Nutre un amore non troppo segreto per l’arte e la scrittura – specialmente la poesia – e cerca di unire tutto ciò nella comunicazione della scienza.

ALESSANDRA GIORDANO è un’illustratrice. Il disegno, una passione da quando è piccola, si è trasformato per lei in lavoro. I suoi punti di riferimento sono la cultura underground e il graffitismo, arti che, come la sua, nascono con l’intento di manifestare da un punto di vista socio-culturale la propria creatività. Si ispira invece al writing per le sue sperimentazioni in campo tipografico. Vive a Londra.