MONNALISA BYTES

Science Storytelling

28′ 36″

Spazio
Ultima frontiera

Testi Lorenzo Aiello
Immagini Adriana Di Cesare
Quanto siamo lontani dal primo viaggio interplanetario?

Dalla scoperta dell’America all’esplorazione dei Poli, il desiderio di perlustrare territori sconosciuti è sempre stato un tratto distintivo della nostra specie. Conoscendo e potendo facilmente raggiungere oggigiorno qualunque luogo sul nostro pianeta si celi al di là dell’orizzonte, la nostra umana curiosità ci porta allora a volgere lo sguardo verso l’alto, verso l’ultima frontiera ancora largamente inesplorata.

Nella parte meridionale della baia di Cardiff un piccolo lembo di terra collega la zona di Porth Teiger a quella di Penarth Marina. È un posto molto suggestivo per chi ama il mare: da una parte si ha la visuale della baia stessa, con un mare generalmente tranquillo pieno di piccole navi, e dall’altra parte si può vedere bene l’immenso canale di Bristol, sferzato spesso da un forte vento freddo che crea sulle superficie ampie onde spumose. Passeggiando tra questi due mari mi capita ogni tanto di osservare delle navi fare rotta verso ovest in uscita dal canale. Sono imbarcazioni che forse trasportano merci verso l’Irlanda, l’Europa o magari addirittura oltreoceano. Vedendole mi chiedo spesso come si senta l’equipaggio, e in particolare il capitano, quando sono ancora relativamente “al sicuro” dentro il canale prima di uscire in mare aperto o in pieno oceano. Come si dice, di certo la nave è più al sicuro nel porto, ma non è per questo che è stata costruita

I travel the world, and the seven seas

Oggi, grazie al GPS, una nave in mare aperto può sapere in ogni momento la sua posizione, le previsioni metereologiche nella zona dove si trova e regolare di conseguenza la sua rotta.

GPS

Il GPS (Global Positioning System) utilizza una rete di circa trenta di satelliti in orbita geostazionaria, a bordo di ognuno dei quali sono installati orologi atomici ad altissima precisione. I satelliti trasmettono segnali radio contenenti informazioni sulla loro posizione e sull’orario attuale, che arrivano ai ricevitori GPS sulla Terra, come ad esempio quello del nostro smartphone. Il ricevitore monitora i segnali inviati da diversi satelliti: in base al tempo intercorso tra l’emissione del segnale da essi e la sua ricezione, e conoscendo la posizione dei satelliti, il ricevitore è in grado di risolvere le equazioni matematiche necessarie a determinare con precisione la propria posizione sulla Terra.

Il GPS può calcolare in poco tempo dove è il porto più vicino, quanto è lontana dalla sua destinazione e indicativamente quanto tempo di navigazione le occorrerà ancora prima di attraccare. Ma per gli esploratori del passato che cercavano di perlustrare l’ignoto al di là dell’orizzonte non valeva niente di tutto questo. Se si volevano raggiungere posti molto lontani senza impiegare molti mesi o anni, il miglior mezzo di trasporto che si potesse utilizzare era la nave: l’aereo infatti non sarebbe stato inventato fino al famoso volo dei fratelli Wright del 1903. Navigare per mare per diverse settimane ininterrottamente presentava comunque notevoli rischi. Non essendoci le attuali tecnologie, la più grande limitazione per i naviganti riguardava il sistema di orientamento. Lo strumento maggiormente usato era l’astrolabio marino, una variante dell’astrolabio originale, che permetteva di calcolare la latitudine di una nave misurando l’altitudine del sole o di una stella nota (in particolare la Stella Polare nel nostro emisfero, o la Croce del Sud se si navigava nell’emisfero australe). L’astrolabio era uno strumento abbastanza preciso e rimase il principale dispositivo di orientamento per chi navigava fino all’invenzione del sestante, avvenuta nel ‘700. 

Anche il meteo era un elemento decisamente imprevedibile, non essendoci allora le conoscenze e gli strumenti in grado di fornire accurate previsioni metereologiche. Tuttavia, vi era un minimo di comprensione degli elementi atmosferici: si conoscevano ed usavano alcuni venti, come ad esempio gli alisei, che soffiano da nord-est verso sud-ovest nell’emisfero boreale e che vennero sfruttati anche da Cristoforo Colombo per il suo celebre viaggio verso la scoperta delle Americhe. Chissà quali pensieri aveva egli quando, nell’agosto del 1492, salpò da Palos de la Frontera, in Andalusia, dirigendo la prua delle famose tre caravelle verso l’ignoto. L’ultimo approdo noto dove attraccarono prima di avventurarsi nell’oceano aperto e sconosciuto fu il porto di San Sebastian, nelle Canarie, da dove Colombo prese il largo il 6 settembre. Il viaggio fu lungo e mise a dura prova la tenuta psicologica dell’equipaggio: per più di un mese le tre navi navigarono in mare aperto senza scorgere il minimo segno della terraferma. Ma quando ormai i malumori stavano raggiungendo livelli incontrollabili, finalmente una sentinella di vedetta scorse quella che venne ribattezzata da Colombo stesso San Salvador, dove sbarcarono il 12 ottobre del 1492.

Grazie alla scoperta di Colombo, lo spirito esplorativo subì una grande accelerazione, con numerose spedizioni navali attraverso gli oceani e altrettante terrestri nelle Americhe, in Asia, in Africa e in Australia che andarono avanti fino alla fine dell’800, concludendosi con l’esplorazione delle regioni polari nel ‘900. 

Oggigiorno conosciamo quindi ogni angolo del nostro pianeta, ma quell’antica ed innata umana curiosità di esplorare l’ignoto non è ancora sufficientemente appagata.

Puntando la Luna

Camminando verso le chiuse della baia, che regolano il traffico marittimo in entrata e in uscita, c’è una particolare panchina sulla quale ogni tanto mi siedo. È una panchina a forma di libro, “The enormous crocodile” dello scrittore gallese Roald Dahl (noto ai più per aver scritto “La fabbrica di cioccolato”). Affianco alla panchina c’è un lunghissimo coccodrillo di plastica sul quale spesso giocano i bambini, raffigurante il protagonista dell’omonimo libro. A volte, stando seduto qui, mi capita di vedere la Luna in cielo specchiarsi nel mare. 

In questa scena possiamo trovare rappresentato in qualche modo rispettivamente il futuro e il passato dell’esplorazione. Poiché ormai non è rimasto praticamente nulla da scoprire qui sulla Terra, la nostra umana curiosità ci porta a volgere lo sguardo verso l’alto, verso quella che è l’ultima frontiera ancora inesplorata.

Come tutti sanno, siamo arrivati sulla Luna per la prima volta nel 1969 con la celebre passeggiata di Neil Armstrong. Ma, allo stesso tempo, sono quasi 50 anni che nessuno mette più piede su di essa. L’ultimo astronauta che infatti camminò sulla sua superficie fu Eugene Cernan, con la missione Apollo 17, nell’ormai lontano 1972. La Luna resta, ad ogni modo, il primo e più facile obiettivo per voler testare o avviare un’eventuale esplorazione o colonizzazione spaziale. Infatti, data la sua vicinanza, essa potrebbe essere raggiunta in tempi relativamente brevi: da 3 a 7 giorni, in base alla manovra di avvicinamento e di allunaggio adottata.

La rotta per Marte…

Guardando un pochino più lontano, non si può non pensare a Marte come possibile colonia umana su più vasta scala. Qui tuttavia le cose diventano più complesse, in quanto la Terra e Marte hanno delle orbite leggermente diverse una dall’altra. Mentre la distanza Terra-Luna (384400 km) è praticamente costante, e quindi potremmo partire in qualunque momento senza che questo stravolga la durata del nostro viaggio, nel caso di Marte è opportuno programmare un’adeguata finestra di lancio. Questo perché la distanza minima tra i due pianeti è intorno ai 56 milioni di chilometri, ma quando sono alla massima distanza essa supera i 400 milioni di chilometri. Allo stato attuale un viaggio su Marte potrebbe durare dai 6 ai 10 mesi (in base appunto alla finestra di lancio), anche se si ipotizza che con un opportuno sistema di propulsione nucleare termico (ancora in fase di studio) si potrebbe arrivare sul pianeta rosso in circa 3 mesi. Fonte:Delbert 

… in meno di 12 parsec?

Ma perché è importante cercare di ridurre il più possibile la durata di un viaggio interplanetario? Da una parte perché un viaggio molto lungo nello spazio profondo potrebbe avere conseguenze psico-fisiche non trascurabili, generando un forte carico di stress sugli astronauti. Inoltre, stare a lungo in un ambiente senza gravità porta anche a sviluppare delle conseguenze fisiche sull’organismo, come atrofia muscolare e deterioramento delle ossa. Ma il motivo principale è un altro: l’esposizione prolungata alla radiazione cosmica.

RADIAZIONE COSMICA

I raggi cosmici sono particelle altamente energetiche originate da diversi fenomeni astrofisici come le esplosioni di supernove, i quasar, la fusione di due stelle di neutroni o anche dal Sole stesso. L’esposizione prolungata ad essi può avere ripercussioni sulla salute, con una maggiore possibilità di sviluppare cancro o tumore.

La Terra, come qualunque altro corpo celeste, è continuamente bombardata da questo tipo di radiazione. La nostra ancora di salvezza è l’atmosfera terrestre, che come un enorme scudo ci protegge schermando i raggi cosmici e permettendo l’esistenza stessa delle diverse forme di vita sul nostro pianeta. Ma come una barca che si avventura in mare aperto perde la protezione fornita dal porto, allo stesso modo una navicella che lascia l’atmosfera non è più protetta dagli effetti nocivi derivanti dall’esposizione a questa radiazione.

EFFETTI NOCIVI

Per capire quanto possa essere pericolosa questa radiazione si utilizza un parametro chiamato dose biologica equivalente, la cui unità di misura è il milliSievert (mSv). Essa considera quante radiazioni una persona ha ricevuto e, allo stesso tempo, quanto danno quel particolare tipo di radiazione può causare. Maggiore è il danno provocato da una certa dose di radiazione, maggiore sarà il valore in mSv.
Al fine di fare un confronto più quantitativo, basti pensare che la quantità di radiazione che una persona assorbe in un anno dovuta alla radioattività naturale terrestre è di circa 2.4 mSv (0.0065 mSv al giorno), mentre due radiografie al petto fanno assorbire poco meno di 1 mSv. Di contro, gli astronauti che si trovano nella Stazione Spaziale Internazionale, in una spedizione di 6 mesi possono arrivare ad assorbire dagli 80 ai 160 mSv (da 0.44 a 0.88 mSv al giorno).  Se pensiamo ad un’ipotetica missione su Marte della durata di tre anni, vediamo che i numeri destano qualche legittima preoccupazione. In questo caso si è calcolato che la dose biologica equivalente sarebbe pare a circa 1200 mSv, oltre 150 volte quella dovuta alla radioattività naturale terrestre. La stessa NASA ad oggi proibisce ai suoi astronauti di fare ulteriori missioni una volta che, durante la loro carriera, abbiano superato una certa soglia di radiazione assorbita accumulata nel corso dei diversi viaggi spaziali. Fonte:Nasa

Né la Luna né Marte sono dotati di un’atmosfera in grado di proteggere dalle radiazioni cosmiche. Di conseguenza, lo sviluppo di edifici e tute spaziali in grado di proteggere opportunamente da esse sono un prerequisito fondamentale per poter creare una possibile colonia umana in questi posti. Guardando al rapporto del NASA Office of Inspector General del 2015 Fonte:Office vediamo che la situazione richiede ancora diversi passi in avanti da compiere, oltre al fatto che probabilmente gli standard di sicurezza e rischio per le prime missioni spaziali di questo genere potrebbero non essere più gli stessi in vigore oggi: 

Nonostante la NASA continui a migliorare i suoi processi per identificare e gestire i rischi per la salute e le performance associate al volo spaziale umano, crediamo che dato lo stato attuale delle conoscenze, le scadenze che l’agenzia si è data per la mitigazione del rischio siano ottimistiche, e che la NASA non sarà in grado di sviluppare contromisure per alcuni dei rischi della navigazione nello spazio profondo prima della fine degli anni 30 del secolo, come minimo. […] Di conseguenza, gli astronauti prescelti per le prime spedizioni nello spazio profondo dovranno accettare un livello di rischio più alto rispetto a quello di quelli che volano oggi sulla International Space Station. Abbiamo anche determinato che la NASA al momento non è in grado di rendicontare dettagliatamente i costi per lo sviluppo delle contromisure per tali rischi.

Alla giusta distanza 

Nonostante il limite attuale sulla sicurezza e la salute per viaggi spaziali di una certa durata, è ipotizzabile pensare che ad un certo punto nel futuro questo problema verrà risolto, e avremo quindi astronavi in cui potremo compiere lunghi viaggi in completa sicurezza per la nostra salute. È lecito allora chiedersi: quanto possiamo spingerci oltre Marte?

Dalla plancia di comando dovremmo innanzitutto puntare la nostra astronave verso una posizione precisa, dove sappiamo esserci un esopianeta, ossia un pianeta al di fuori del Sistema Solare in orbita attorno ad una stella. Se siamo al comando dell’Enterprise e siamo spinti dal solo spirito esplorativo, potremmo puntare ad un esopianeta qualsiasi. Ma se vogliamo cercare una base per una futura colonia, allora il nostro esopianeta deve soddisfare un requisito in più: deve essere potenzialmente in grado di ospitare la vita. 

Gli ingredienti indispensabili per soddisfare questa condizione sono principalmente tre. Fonte:Balbi Serve innanzitutto una sorgente di energia, come una stella, per poter appunto fornire l’energia allo sviluppo dei processi necessari alla formazione della vita e del suo mantenimento. Devono poi essere presenti alcuni elementi chimici particolari, che sono alla base della chimica dei sistemi viventi: idrogeno, ossigeno, carbonio, azoto, zolfo e fosforo. L’ultimo requisito è la presenza di acqua liquida (non in altri stati di aggregazione), che è la condizione più difficile delle tre da soddisfare.

Il requisito di acqua liquida introduce il concetto di fascia abitabile della stella. Essa viene definita come una zona a forma di anello intorno all’astro all’interno della quale, se vi è un pianeta, è possibile poter trovare acqua liquida su di esso. In maniera un po’ più rigorosa, si definisce il bordo interno della fascia abitabile come quello dove l’acqua degli oceani evapora, e come bordo esterno dove la temperatura non è più tale da mantenere l’acqua sopra la temperatura di congelamento.

La definizione di fascia abitabile è molto generale e non implica automaticamente che un pianeta possa ospitare la vita. Inoltre, la temperatura superficiale di un pianeta dipende anche dalla composizione della sua atmosfera. Se guardiamo al nostro Sistema Solare, nella fascia abitabile del Sole ci sono Venere, Terra e Marte, tre pianeti tra loro molto diversi, e solo uno di essi ospita effettivamente la vita. Venere ha un’atmosfera densa e piena di gas serra, con una temperatura superficiale molto alta, mentre Marte presenta un’atmosfera molto sottile che ne fa al contrario un pianeta molto freddo. 

Va aggiunto che in alcuni casi si è scoperta la presenza di acqua liquida anche al di fuori della fascia abitabile. Studiando le lune dei pianeti gassosi del nostro Sistema Solare, è stata osservata la presenza di acqua liquida su Europa e Ganimede (satelliti di Giove) e su Encelado (satellite di Saturno), collocati ben al di fuori della fascia abitabile del Sole. I tre ingredienti indispensabili sono fondamentali, ma non sufficienti da soli a dare ad un pianeta la potenzialità di poter ospitare la vita. Servono infatti anche altri fattori, come un giusto valore di gravità superficiale e la presenza di un’atmosfera adatta a schermare dalle radiazioni cosmiche. Il concetto di fascia abitabile è quindi qualcosa che aiuta gli astronomi impegnati nella ricerca di esopianeti adatti ad ospitare la vita a fare una prima generale scrematura, focalizzandosi su quelli che sembrano soddisfare più requisiti di abitabilità.

GRAVITÅ SUPERFICIALE

La gravità superficiale di un corpo celeste è l’accelerazione di gravità sperimentata da un oggetto all’equatore. Per la Terra questo valore, noto come g, equivale a circa 9.8 m/s2. La gravità superficiale è direttamente proporzionale alla massa del corpo celeste e inversamente proporzionale al quadrato del suo raggio.

Oltre il Sistema Solare, ma non troppo

Sapendo adesso che tipo di pianeta dobbiamo cercare, puntiamo quindi la nostra nave verso l’esterno del Sistema Solare, superiamo Nettuno ed entriamo nella cosiddetta Fascia di Kuiper. Questa fascia si estende fino a 50 unità astronomiche dal Sole, dove 1 unità astronomica è la distanza Terra-Sole (circa 150 milioni di chilometri). In questa zona ci sono corpi minori, come comete ed asteroidi, nulla di troppo interessante per il nostro spirito esplorativo. Andiamo quindi oltre e ci avventuriamo nella grande Nube di Oort, e da qui proseguiamo nello spazio interstellare profondo. 

Appare a questo punto sul nostro radar l’esopianeta più vicino che è stato scoperto finora: si chiama Proxima b, Fonte:Menietti ed orbita intorno alla stella più vicina al Sole, Proxima Centauri. Sappiamo ad oggi che è grande circa 2-3 volte la Terra e che si trova nella fascia abitabile della stella anche se, come abbiamo visto, ciò non lo rende automaticamente un pianeta adatto ad ospitare la vita. Purtroppo è sottoposto ad un forte vento stellare, ossia ad una grande quantità di gas generato da Proxima Centauri. Tale vento è circa 2000 volte più forte di quello che viene creato dal Sole e che arriva sulla Terra, Fonte:Garraffo ed è abbastanza per spazzare via qualunque forma di atmosfera. Per garantire un’adeguata protezione dalle radiazioni cosmiche servirebbe allora un forte campo magnetico planetario, la cui presenza non è ancora stata definitivamente appurata o esclusa.

Inoltre, sembra che Proxima b sia in cosiddetta rotazione sincrona con la sua stella, cioè che abbia il periodo di rotazione uguale a quello di rivoluzione. Questo significa che una metà del pianeta sarebbe sempre rivolta verso la stella, e un’altra metà sempre al buio, un po’ come la Luna con la Terra. Come conseguenza la maggior parte del pianeta rischierebbe di essere troppo calda o troppo fredda, con possibilità di poter ospitare la vita solo in quelle regioni del pianeta vicine alla cosiddetta zona crepuscolare, ossia al limite tra queste due aree estreme.

Un altro problema per l’abitabilità su Proxima b, in assenza di atmosfera, è costituito dalla stella stessa intorno a cui ruota. Proxima Centauri è infatti quella che viene definita una flare star, una stella a brillamento. Mentre il nostro Sole è abbastanza regolare nei suoi diversi cicli di attività, questo genere di stelle è caratterizzato da improvvisi e rapidi aumenti di luminosità, che possono durare pochi minuti come diverse ore. Durante questi eventi Proxima Centauri rilascia una gran quantità di raggi X che, in assenza di un’opportuna protezione, risulterebbero letali per qualunque forma vivente risiedesse su Proxima b.

C’è un ultimo, ma non trascurabile, dettaglio da dover considerare: la distanza. Abbiamo detto che Proxima b è l’esopianeta più vicino che sia stato scoperto, ma è anche vero che per arrivarci abbiamo fatto un viaggio (per il momento solo mentale) molto lungo. Esso si trova a circa 4.3 anni luce da noi, dove un anno luce è la distanza percorsa in un anno dalla luce, che viaggia a circa 300000 km/s (o circa 1.08 miliardi di km/h), e corrisponde a circa 9460 miliardi di chilometri. 

Allo stato attuale siamo ancora molto lontani dal raggiungere velocità anche solo lontanamente vicine a quelle della luce. La massima velocità raggiunta finora da un aereo sperimentale è pari a 12144 km/h, il che richiederebbe qualcosa come più di 80000 anni per raggiungere Proxima b. Nello spazio le cose vanno leggermente meglio. La sonda Juno, per esempio, ha raggiunto una velocità di 265000 km/h; tuttavia, anche se riuscissimo a tenere questa velocità, avremmo comunque bisogno di qualcosa come oltre 16000 anni per raggiungere Proxima b.

Il limite di velocità

Anche nel caso ipotetico in cui disponessimo di super motori in grado di raggiungere la velocità della luce, la durata del viaggio non sarebbe appunto inferiore a 4.3 anni, con tutti i rischi dovuti all’esposizione prolungata alla radiazione cosmica di cui abbiamo parlato in precedenza.Si potrebbe obiettare che se riuscissimo a viaggiare, per esempio, dieci volte più veloci della luce, a quel punto il viaggio consisterebbe solo di qualche mese. Qui tuttavia interviene un limite fondamentale, non di natura tecnologica ma propriamente fisica: nulla può andare più veloce della luce. Fonte:Balbi

LA VELOCITÁ DELLA LUCE

Il principio fisico di base è che, se vogliamo portare un oggetto di una certa massa m a viaggiare ad una certa velocità v, dobbiamo spendere una determinata quantità di energia. A velocità molto minori di quella della luce, dette velocità non relativistiche, la quantità di energia da spendere è data da una relazione abbastanza semplice: E=mv2/2. Se prendiamo questa equazione e calcoliamo quanta energia serve per portare a velocità della luce (v=c dove c è la velocità della luce) un oggetto di massa 10 grammi, viene fuori che la quantità di energia richiesta è quella prodotta da una centrale elettrica in 5 giorni. È un numero grande, ma non sembra all’apparenza impossibile.
Il problema giace nel fatto che, quando abbiamo a che fare con velocità molto grandi e prossime a quelle della luce, note come velocità relativistiche, le cose si complicano e l’equazione precedente non è più valida, ma viene sostituita da una più complessa. Tanto più la velocità a cui vogliamo portare il nostro oggetto si avvicina ai 300000 km/s, tanta più energia dobbiamo spendere, fino a richiedere un valore infinito di energia per arrivare proprio a v=c. Da questo deriva il fatto che la velocità della luce è un limite fisico purtroppo invalicabile. 
Qualcuno potrebbe controbattere che l’equazione è sbagliata o inesatta, ma non è così. Essa è stata correttamente verificata innumerevoli volte, ad esempio negli acceleratori di particelle, dove le particelle raggiungono appunto velocità relativistiche (fino a qualche frazione della velocità della luce), e l’energia spesa ogni volta per portarle a diversi valori di velocità è risultata sempre essere in accordo con l’equazione sopra menzionata.

La conseguenza in termini diretti e pratici per l’esplorazione spaziale è dunque quella di un ulteriore allungamento dei tempi di viaggio, rispetto anche solo ai 4.3 anni ipotizzati all’inizio. 

A tutta birra 

La domanda che viene naturale allora porsi è: se la velocità della luce è un limite che sembra non poter essere superato in nessun modo, quali sono gli attuali limiti tecnologici con cui ci dobbiamo confrontare? E quali potrebbero essere i possibili approcci per poter spingere al massimo la velocità delle future astronavi?

La Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere per sempre in una culla.”
– Konstantin Eduardovich Tsiolkovsky 

Ad oggi i razzi che lanciano i satelliti o che portano gli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale vengono accelerati e raggiungono le velocità a loro necessarie per il viaggio attraverso l’espulsione del propellente. Più quest’ultimo viene espulso velocemente, maggiore è l’accelerazione impressa al razzo e la conseguente velocità massima che esso potrà raggiungere. Ma non potremmo allora espellerlo ad un ritmo tale da avere le velocità necessarie per i viaggi interstellari?

Qui entra in gioco un altro limite fisico, meno noto in generale ma di fondamentale importanza in astronautica. Esso è espresso dalla cosiddetta equazione del razzo di Ciolkovskij, dal nome dell’ingegnere e scienziato russo che la derivò (sebbene fosse stata già indipendentemente ricavata in precedenza). La velocità massima con cui il carburante esce nei razzi attuali è di circa 5 km/s. Fonte:Balbi Supponiamo di voler raggiungere una velocità pari ad un centesimo della velocità della luce, che ci permetterebbe di arrivare su Proxima Centauri in circa 400 anni. Purtroppo, questa equazione ci dice che la massa di carburante che servirebbe è maggiore di tutta quella dell’universo osservabile (e quest’ultima è numero enorme, pari a circa 1053 kg, o se preferite 100.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 kg). Da questo si evince che, se vogliamo utilizzare dei modelli di razzi come quelli tuttora in uso, non possiamo aumentare la massa di carburante da utilizzare ma dobbiamo agire sull’altra variabile dell’equazione: cercare di aumentare la velocità di espulsione del propellente. 

Alcuni progetti del passato avevano provato ad andare in questa direzione, anche provando ad usare meccanismi diversi. Fonte:Balbi Il progetto Orion Fonte:Dyson prevedeva ad esempio la possibilità di aumentare notevolmente la velocità del razzo attraverso un’esplosione in sequenza di testate nucleari. Dal punto di vista tecnologico sarebbe stato un progetto realizzabile, e stime teoriche avevano previsto che avrebbe potuto portare il razzo fino ad un decimo della velocità della luce, permettendo di raggiungere Proxima in qualche decennio. Ma in primis i trattati internazionali proibiscono categoricamente l’utilizzo di armi atomiche nello spazio. In secondo luogo, tutte le radiazioni generate dalle esplosioni atomiche avrebbero potuto avere conseguenze sull’equipaggio nel lungo termine, soprattutto considerando che essendo ad ogni modo un viaggio lungo l’esposizione ad esse sarebbe stata molto prolungata.Un altro metodo studiato in passato per raggiungere velocità relativistiche è stato quello di cercare di sfruttare sempre la propulsione nucleare, ma basandosi sulla fusione nucleare Fonte:Post anziché sulla fissione. Il progetto Dedalus provò ad esplorare questa possibilità ma venne fuori che in questo caso il limite non era di natura fisica ma tecnologica. Difatti, sebbene sia teoricamente possibile, le tecnologie attuali non permettono di metterlo in pratica perché ad oggi non siamo in grado di controllare un processo di fusione nucleare (ma questo non vieta che potremo farlo in un futuro non troppo lontano).

FUSIONE NUCLEARE

La fusione nucleare è un processo termonucleare che avviene dentro le stelle, nel quale due nuclei atomici si fondono creando nuclei più pesanti e rilasciando energia. Affinché la fusione avvenga è necessaria la presenza di una temperatura straordinariamente alta, dell’ordine di centinaia di milioni di gradi.

FISSIONE NUCLEARE

La fissione nucleare è una reazione nucleare in cui il nucleo di un atomo, solitamente di un elemento pesante, si scinde in due o più nuclei più leggeri di quello di partenza. La reazione rilascia una grande quantità di energia e, a differenza della fusione, presenta il problema di produrre elementi di scarto radioattivi (le cosiddette scorie radioattive).

CONTROLLO DEL PROCESSO DI FUSIONE NUCLEARE

Il controllo del processo di fusione nucleare è la sfida più grande per la produzione di energia tramite questa tecnica. Uno dei metodi per tenere sotto controllo il plasma a temperature così alte è quello del confinamento magnetico: un enorme campo magnetico “racchiude” il plasma all’interno del reattore, permettendo alla fusione di avere luogo in maniera controllata e continua. Per generare questo campo magnetico si usano dei superconduttori elettromagnetici raffreddati con elio liquido. Tenere attivi questi magneti richiede moltissima energia, quasi quanta quella attualmente prodotta dai reattori sperimentali. Allo stato attuale gli esperimenti più avanzati riescono a tenere sotto controllo il processo di fusione solo per qualche secondo, e l’energia spesa per farlo è superiore a quella ottenuta dalla fusione stessa.

Cambiare la spinta

Consapevole che i metodi considerati finora hanno un limite di natura fisica o tecnologica, l’ingegno umano ha lavorato per vedere se usando un diverso principio di propulsione si poteva giungere a qualcosa di più concretamente realizzabile.Una prima idea venuta fuori è stata quella di provare ad usare il cosiddetto collettore di Bussard. Fonte:Balbi Si tratterebbe di dotare l’astronave di un gigantesco collettore in grado di catturare l’idrogeno presente nello spazio interstellare, che a quel punto potrebbe essere usato per alimentare un reattore a fusione. Questo approccio non presenta nessun limite di tipo fisico, ma il problema in questo caso è che la densità di idrogeno nello spazio è molto molto bassa. Essa è stata rimisurata di recente in 0.127 particelle per centimetro cubo Fonte:Sandri o, per dare un’idea più pratica, 120 atomi di idrogeno in uno spazio delle dimensioni di quello occupato da un cartone da un litro di latte. Il collettore dovrebbe quindi essere gigantesco, di diverse decine di km, e questo presenta problemi di natura tecnologica ad ora non superabili (oltre al fatto di dover sempre controllare un processo di fusione nucleare, cosa che appunto ancora non sappiamo fare).

COLLETTORE

Un collettore è tecnicamente uno statoreattore, ossia un motore a reazione. Nel caso del collettore di Bussard, il collettore sarebbe costituito da un enorme campo magnetico, che come una sorta di gigantesco “cucchiaio” raccoglierebbe l’idrogeno necessario per alimentare la reazione di fusione nucleare. Fonte:Balbi

REATTORE A FUSIONE

Un reattore a fusione è un sistema in grado di attivare e tenere sotto controllo una reazione nucleare basata sul principio della fusione nucleare. Differisce dalle moderne centrali per il principio di funzionamento, in quanto allo stato attuale l’unico modo di produrre in maniera efficiente energia nucleare è tramite il metodo della fissione. Ad oggi non esistono reattori a fusione in uso, e diversi esperimenti sono in corso per sviluppare la tecnologia necessaria.

L’altra idea, decisamente più fattibile, è quella delle cosiddette vele solari o vele fotoniche. Fonte:Balbi Il principio di base è che le particelle di cui è composta la luce, i fotoni, trasportano energia e quantità di moto. Di conseguenza, se i fotoni colpiscono una superficie, come una vela, trasferiscono ad essa la loro energia e quantità di moto esercitando quella che viene chiamata pressione di radiazione. Tale pressione rappresenterebbe dunque il meccanismo di propulsione in grado di accelerare la vela (e la navicella ad essa collegata). La vela dovrebbe avere ovviamente delle caratteristiche particolari, tra cui essere estremamente leggera e molto grande. Questa tecnologia è stata tra l’altro già stata sviluppata e testata con successo: l’esempio più famoso è quello della sonda giapponese IKAROS, che nel 2010 atterrò su Venere e fu la prima in assoluto ad usare la vela solare come mezzo di propulsione. Un altro esempio è stata la missione LightSail1 nel 2015, in cui è stata lanciata in orbita una piccola navicella che è riuscita correttamente a dispiegare la sua vela solare, e la successiva LightSail2 nel 2019.

PRESSIONE DI RADIAZIONE

Le onde elettromagnetiche trasportano energia e quantità di moto (una grandezza fisica definita dal prodotto tra la massa e la velocità di un oggetto). Quando un corpo interagisce con un’onda elettromagnetica è soggetto ad una forza, il cui valore per unità di superficie definisce la pressione. La forza per unità di superficie generata su un oggetto da un’onda elettromagnetica prende il nome di pressione di radiazione.

Spiegare le vele 

La fattibilità tecnologica delle vele fotoniche e i recenti successi ottenuti hanno spinto molte menti a scommettere su questo approccio come quello più valido per l’esplorazione (e forse un domani per il viaggio) spaziale.

Il vantaggio di questa tecnica è la completa assenza della necessità di un carburante. Tuttavia, anche se la pressione di radiazione esercitata dai fotoni che arrivano sulla Terra è sufficiente a far muovere una vela fotonica, potrebbe non bastare per garantire un viaggio fino a Proxima Centauri in tempi ragionevoli. Qui entra in gioco l’idea di sostituire la luce solare con una sorgente artificiale ad alta energia, come quella di un laser. L’idea venne già teorizzata nella seconda metà del secolo scorso Fonte:Marx Fonte:Forward ed ora c’è un progetto concreto, il progetto Starshot, Fonte:Balbi che sta cercando di farla diventare realtà. Va specificato che per il momento si sta parlando di mandare nello spazio con questa tecnica piccole navicelle, non grandi astronavi spaziali con equipaggio. Tuttavia, questo progetto al momento sembra non avere nessun limite tecnologico che potrebbe compromettere la sua realizzazione. 

La sfida è comunque enorme, in quanto si tratterebbe di utilizzare un’enorme quantità di laser allo stesso tempo distribuiti su una superficie di qualche chilometro quadrato. La potenza complessiva sarebbe dell’ordine del gigawatt (un miliardo di watt) o superiore, corrispondente grossomodo a quella prodotta da cento milioni di lampadine LED. Una volta che la navicella fosse in orbita nell’atmosfera dispiegherebbe la vela fotonica, che verrebbe colpita dalla batteria di laser ricevendo l’accelerazione necessaria per arrivare su Proxima b. La navicella andrebbe comunque puntata in maniera estremamente precisa, perché dopo non sarebbero possibili eventuali correzioni di rotta dovute all’enorme distanza tra la navicella e la Terra: una volta che l’astronave arrivasse in prossimità di Proxima b, la sua telemetria ci arriverebbe con circa quattro anni di ritardo, e altrettanto servirebbe a qualunque segnale di correzione inviato dalla Terra per raggiungere la navicella.

Si è calcolato che con questo metodo sia possibile far arrivare una piccola navicella su Proxima b in circa venti anni. Le stime più ottimistiche prevedono che il primo lancio possa avvenire tra venti anni: aggiungendo il tempo di viaggio e il tempo di circa quattro anni per il ritorno del segnale con i dati inviati, ci vorrà ancora più o meno mezzo secolo (nel migliore dei casi) prima di testare quella che è la possibilità al momento più realistica di inviare navicelle fuori dal Sistema Solare.

Verso l’infinito e oltre

Se Proxima b è l’esopianeta più vicino scoperto finora, non significa che sia l’unico o l’ultimo. Prima del 2010 conoscevamo circa 400 esopianeti, ma nell’ultimo decennio ne sono stati individuati un numero sempre maggiore: basti pensare che solo negli ultimi cinque anni ne abbiamo scoperti oltre duemila. Fonte:Exo La maggior parte di essi non soddisfa nessun requisito di abitabilità, ma alcuni invece si dimostrano molto interessanti sotto questo punto di vista. 

Per fare un esempio, è stato osservato che intorno ad una stella chiamata TRAPPIST-1 orbitano sette esopianeti, tre dei quali nella fascia abitabile. Dagli studi preliminari sembra che essi abbiano dimensioni comparabili con quelli della Terra e che la loro temperatura superficiale possa permettere di ospitare acqua liquida. Ma da qui a poterli dichiarare papabili per future colonie la strada è ancora lunga. Infatti, la stella TRAPPIST-1 si trova a circa quaranta anni luce dal nostro Sole, quindi dieci volte più lontano di Proxima b. Se già arrivare su Proxima b sembrava titanico, arrivare su TRAPPIST-1 sembra al limite dell’impossibile. 

La buona notizia per queste missioni a più lungo raggio, tuttavia, riguarda proprio il tempo di viaggio per gli astronauti. Quando abbiamo parlato di raggiungere Proxima o TRAPPIST-1, gli anni di viaggio menzionati si riferivano a quelli che vedrebbero gli osservatori sulla Terra. Ma per l’equipaggio a bordo dell’astronave, poiché la velocità del mezzo di trasporto è molto alta, il tempo scorrerebbe in maniera più lenta, come ci insegna la Relatività di Einstein (basta che pensiate al film Interstellar quando i protagonisti si trovano nelle vicinanze di un buco nero). Per fare un esempio, per arrivare su Proxima b il viaggio sarebbe di 4.3 anni per chi lo vede dalla Terra, ma di poco più di tre anni e mezzo per l’equipaggio. Per raggiungere il centro della Via Lattea, il viaggio sarebbe di 30000 anni per chi è rimasto a guardare la nave sul nostro pianeta, mentre per i viaggiatori all’arrivo sarebbero passati solamente 20 anni dal decollo.

Guardando al futuro

Le limitazioni fisiche e tecnologiche che abbiamo descritto non devono tuttavia scoraggiare il nostro spirito esplorativo. Guardandoci indietro, soltanto 2000 anni noi Europei fa pensavamo che tutto il nostro mondo fosse l’Europa. Nel giro di due millenni l’essere umano è riuscito ad esplorare tutto il globo, a fotografarlo dallo spazio, e non si è fermato qui. 

Se da una parte gli attuali limiti sulla protezione dalle radiazioni cosmiche e sull’effettiva velocità a cui potremo viaggiare ci potrebbero indurre a desistere, d’altro canto guardare a quante importanti conquiste scientifiche e tecnologiche abbiamo raggiunto negli ultimi due secoli ci dovrebbe spingere ad avere un minimo di ottimismo verso il futuro dell’esplorazione spaziale. 

Cinquant’anni fa i miei nonni per viaggiare dalla Calabria a Roma in treno impiegavano quasi un giorno intero. Oggi in 12 ore di aereo (o anche meno) si arriva dall’Europa all’altra parte dell’oceano Atlantico. Con queste due immagini in mente alzo di nuovo lo sguardo dal mare verso la volta celeste, e penso che anche se la fisica ci insegna che niente può andare più veloce della luce, il potenziale illimitato dell’ingegno umano potrà permetterci un domani di viaggiare verso nuovi meravigliosi mondi.

LORENZO AIELLO è un fisico sperimentale con un dottorato in Fisica Astroparticellare in tasca ed un sogno nel cassetto. Per inseguire quest’ultimo, nell’autunno 2019 emigra in Galles diventando uno dei tanti “cervelli in fuga”. Attualmente è Research Associate presso la Cardiff University, dove lavora nel campo delle onde gravitazionali e della gravità quantistica. Odia lo smart working, ama la pizza.

ADRIANA DI CESARE è una creativa nella norma – almeno crede. È laureata in Graphic Design & Art Direction, qualche volta è un’atleta agonista di canottaggio, le piace cantare sotto la doccia e raccontare storie.